Fascismo, totalitarismo a intermittenza

«Il fascismo si presentava fin dalle origini come risultato di orientamenti differenti, tenuti insieme dal pragmatismo di Mussolini ma anche da un peculiare atteggiamento verso la vita e verso i valori culturali tradizionali». Con questa prima frase, che apre il primo capitolo del volume, Belardelli sintetizza perfettamente la natura composita e precaria dell’ideologia fascista. Ne sottolinea anche l’alto tasso di continuità con una tradizione culturale che aveva preso piede negli ambienti intellettuali dell’Italia di inizio Novecento. La guerra era stata l’evento al contempo catalizzatore e propulsore di un nazionalismo antigiolittiano che reclamava ora e subito un’Italia rigenerata, totalmente alternativa a quella che aveva con fatica rinsaldato in molti punti il fragile edificio politico-istituzionale eretto nel 1861. E il paradosso è che quegli stessi ambienti intellettuali si nutrivano, a destra come a sinistra, di una forte avversione nei confronti dell’intellettualismo, vale a dire di un atteggiamento che considerava la politica questione separata ed estranea alla vita del letterato e dell’uomo di cultura. Al contrario, è proprio con l’avvento del fascismo che il termine “intellettuale” si impone come nuova espressione per indicare e definire chi interviene e partecipa alla vita pubblica, dando il proprio contributo alla costruzione della “nuova Italia” purgata a Caporetto e risorta a Vittorio Veneto. Artefice di questa operazione è Giovanni Gentile, il quale adotta una vera e propria strategia di occupazione delle istituzioni culturali esistenti e di altre appositamente erette ex nihilo, per coinvolgere attivamente il maggior numero di esponenti del mondo della cultura italiana. Al di là della fedeltà a Mussolini e al regime, che sarà poi tradotta in un obbligo di giuramento per i docenti universitari, quel che Gentile chiede è un convinto “patriottismo culturale”, una fede degli uomini di cultura, dell’élite presente e futura, nell’avvenire dell’Italia quale nazione che non potrà non godere, dopo la comparsa del “duce” e la sua conquista del governo, di un crescente prestigio internazionale. Se nei nazionalisti e in Gioacchino Volpe questo prestigio è da intendersi anche come significativa crescita di peso dell’Italia nella politica estera, per Gentile è il sogno di una nazione sempre più fusa nell’identità tra cittadino e Stato, tra cultura e politica. In questo il filosofo siciliano rivelava un animus totalitario, che però intendeva esprimersi, e di fatto si espresse, tramite la ricerca di una collaborazione della classe intellettuale alle sorti dell’erigendo Stato fascista, poiché era all’interno del nuovo Stato che la nazione avrebbe preso forma compiuta. I modi della strategia gentiliana, finalizzata ad una egemonia politicoculturale che non poco ispirò le pagine vergate da Antonio Gramsci in carcere, hanno suggerito la natura “quasi liberale” del suo fascismo. Niente di più storicamente errato. Si tratta semplicemente di un’impressione di mitezza e moderazione politica generata dall’incertezza e dall’intermittenza con cui il regime fascista, nel settore della cultura e dell’insegnamento, adottava provvedimenti di allontanamento ed espulsione. Un’oscillazione di comportamenti dovuta a quella dialettica tra collaborazione ed epurazione che contraddistinse la politica del fascismo nei confronti della cultura. La collaborazione era perseguita appunto da personaggi come Gentile, mentre l’epurazione era l’assillo delle correnti fasciste più radicali. La presenza di questa dialettica si riscontra, in misura diversa, anche in altri settori della vita pubblica del regime. Quel che, agli occhi dello storico, risulta di sicuro mancante è la sistematicità, la coerenza e l’irrevocabilità di una politica repressiva e persecutoria di ogni comportamento dissidente, come testimoniano i numerosi casi documentati da Belardelli. Quegli attributi il fascismo li acquistò soprattutto dopo il 1938, con l’introduzione delle leggi razziali, quando l’epurazione si fece molto più decisa e massiccia. Belardelli offre una interpretazione interessante di alcuni passaggi dei Quaderni del carcere di Gramsci. Ne suggerisce una lettura che tiene conto del contesto politico-culturale nel quale il dirigente comunista scrisse le pagine dedicate agli intellettuali e al problema della loro organizzazione in funzione rivoluzionaria. Con ogni probabilità, Gramsci guardò all’azione che i fascisti stavano compiendo nel campo della cultura. «Una strategia politica che, mirando ad acquisire consensi prima ancora della conquista rivoluzionaria del potere, attribuiva una funzione essenziale agli intellettuali in quanto protagonisti dell’azione politico-pedagogica volta a orientare le masse»; così Belardelli riassume il concetto gramsciano di egemonia. Appare di immediata evidenza l’analogia con il progetto gentiliano di permeare la società italiana dei valori fascisti (gerarchia, devozione allo Stato e al suo “duce”, concezione agonistica della vita, ecc.) mediante una pervicace e pervasiva azione educativa e culturale, e non il semplice tesseramento. Gli intellettuali avrebbero dovuto rappresentare il principale destinatario di questa azione di conquista, perché era dalle élites che occorreva prendere le mosse se l’intenzione era compiere una rivoluzione autentica, e come tale trasformatrice delle coscienze. Questo pensava Gentile e questo condivideva Giuseppe Bottai, che da giovane reduce della prima guerra mondiale aveva ammirato e fatto proprio, come tanti altri coetanei e commilitoni, l’insegnamento elitista di Pareto. Anche Bottai, come Gramsci, avvertì con forza la «necessità di coinvolgere gli intellettuali nella edificazione di una società totalitaria e di conquistare il consenso attraverso la costruzione di un’egemonia culturale». Soltanto che nel gerarca fascista questa convinzione nasceva a controllo del potere politico avvenuto e con le opposizioni già sbaragliate. L’obiettivo era ben diverso da quello dell’edificazione di una società socialista, ma simile era l’intento totalitario di colonizzare le mentalità collettive che animano una società civile, in modo da unificarle e cementarle a sostegno di un preciso disegno politico rivoluzionario. Altre pagine degne di segnalazione, in un libro tutto da leggere e meditare, sono quelle dedicate a Volpe, alle ragioni e alle modalità della sua personale adesione al fascismo, nonché l’analisi della funzione svolta dal mito della romanità nel corso del ventennio mussoliniano. Quel che emerge dalla lettura del volume di Belardelli è che solo una rigorosa e pacata fenomenologia storica del regime fascista può fornire informazioni davvero utili e veritiere circa l’effettiva natura di quell’esperienza politica. È così che attraverso la ricostruzione documentata e dettagliata di numerosi episodi si può oggi affermare con una certa sicurezza che il totalitarismo fascista fu quanto meno a corrente alternata, per così dire, se non proprio «riluttante», come sostiene lo stesso Belardelli. A tal proposito è illuminante la vicenda della voce “Fascismo” dell’Enciclopedia Italiana, pubblicata nel 1932. La voce era stata suddivisa in due parti: Dottrina, a firma di Mussolini (in collaborazione con Gentile) e Storia, a firma di Volpe. La prima parte, proprio perché scritta con il contributo del filosofo dell’attualismo, risentì di quella che papa Pio XI già un anno prima, nel 1931, aveva bollato come «statolatria pagana». La concezione totalitaria della vita, propugnata da Gentile per il fascismo, appariva alla Chiesa cattolica come tentativo di sostituzione della religione del trascendente con una falsa e pericolosa «religiosità» immanentista. Le proteste papali, e le minacce di una condanna ufficiale della voce incriminata, giunsero all’orecchio di Mussolini tramite Cesare Maria De Vecchi, all’epoca ambasciatore presso la Santa Sede. Cosa fece il duce, che nel 1925 aveva affermato la «feroce volontà totalitaria» del fascismo? Ordinò subito di bloccare l’uscita del volume. Non potendo ritirare la propria firma da un testo che la stampa aveva già anticipato come «dettato dal Duce», decise di aggiungere una seconda parte a quella scritta in collaborazione con Gentile. Di proprio pugno, Mussolini scriveva che lo Stato fascista non restava «indifferente» a «quella particolare religione positiva che è il cattolicesimo». La Santa Sede, pur non completamente soddisfatta, giudicò accettabile la nuova versione della voce enciclopedica. Nello stesso inconveniente Mussolini cadde in quegli stessi giorni con l’uscita dei Colloqui con Mussolini, volume nato da una serie di interviste rilasciate al giornalista Emil Ludwig. Anche in questo caso si procedette a correzioni che accoglievano le critiche del Vaticano. Se si pensa che parliamo di testi che rappresentavano l’ideologia ufficiale del regime e il pensiero del suo capo, tanto da essere tradotti in decine di lingue straniere, abbiamo l’intera misura di quanto “imperfetto” sia stato il fascismo italiano, nonostante le intenzioni del suo leader e di molti seguaci. Quando Mussolini cercò di compiere un deciso giro di vite, il “consenso” prodotto da una dittatura fondata sul compromesso con i vecchi “poteri forti” rivelò tutta la propria fragilità. Alzare la posta, usando la carta dell’impegno bellico, si mostrò l’azzardo cui seguì la rovina.

DANILO BRESCHI

 

Da “Ideazione”, XIII, n. 3, maggio-giugno 2006, pp. 204-207.

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