La rivoluzione mancata.

Il libro che qui recensiamo, La rivoluzione mancata, è l’ultimo prezioso tassello che si aggiunge, all’interno della battaglia storiografica revisionista, ad altri sforzi, compiuti da studiosi liberi, al fine di fare chiarezza su quanto accadde in Italia al termine della seconda guerra mondiale e di quella che per primo, Cesare Pavone, storico di sinistra, ebbe il coraggio di chiamare guerra civile. Si tratta dell’opera di tre autori: il primo, Amleto Ballerini, è Presidente della Società di Studi Fiumani, il secondo, Marino Micich, è Direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume, il terzo, Prof. Augusto Sinagra, è docente di Diritto dell’Unione Europea presso l’Università “ La Sapienza ” di Roma.

Oggetto delle loro indagini è quella “ rivoluzione mancata”(per fortuna), accuratamente, però, preparata attraverso piani strategici dalla classe dirigente del Partito Comunista Italiano nell’Italia Settentrionale, come momento apicale e conclusivo della guerra partigiana, in connessione temporale e ideologica con le stragi e il terrore seminato dalle bande slavo-comuniste nelle province italiane di Pola, Fiume e Zara. Si tratta dell’analisi di un momento, assai significativo sotto il profilo storico-politico, di quella più vasta guerra civile europea attorno alla quale hanno ruotato, almeno secondo la prospettiva esegetica di Nolte, gli eventi del secolo da poco trascorso. Per troppo tempo la storiografia ufficiale ha prodotto una lettura dei fatti in questione a uso e consumo dei vincitori, al solo scopo di consentire l’impunità di coloro che si rivelarono, alla luce della verità effettuale, dei malfattori, animati dal tentativo di conseguire obiettivi liberticidi e antinazionali.

Ci riferiamo, innanzitutto, alle efferate azioni messe in atto, tra le altre, nel cosiddetto triangolo della morte, i cui vertici geografici sono individuabili nei paesi di Castelfranco Emilia, Piumazzo e Manzolino nel modenese, a danno non solo di presunti fascisti, ma di sacerdoti, di liberali e moderati, che non piegavano la testa di fronte alle intimazioni di chi avrebbe voluto loro imporre scelte inaccettabili. Tali vicende tragiche si intersecano, come detto, nella puntuale ricostruzione storica che emerge dalle pagine del libro in questione, con quelle, altrettanto drammatiche, che coinvolsero le popolazioni italiane della regione giuliana, al momento in cui essa fu occupata dalle truppe del Maresciallo Tito. Anche qui, oltre agli ex fascisti, furono colpiti gli appartenenti alla comunità italiana, a volte uomini della stessa Resistenza che non avevano rinunciato, però, a difendere i diritti del nostro popolo in quell’area. E’ il caso di Antonio Budicin che trascorse, fortunato rispetto ad altri finiti nelle foibe, un periodo di lunga detenzione nelle carceri slave. I documenti mostrano un numero assai rilevante di vittime, comprendente gli infoibati, i fucilati, e coloro che subirono agguati, tale da consentire di avanzare, sotto il profilo giuridico, senza tema di smentita, l’ipotesi genocidiale.

Del resto, la connivenza e la complicità dei comunisti nostrani, la si spiega facilmente: il progetto rivoluzionario da questi messo in piedi, in caso di necessità, prevedeva, al Nord, l’intervento jugoslavo. Ciò lo si evince, con chiarezza, dalla richiesta inviata da Togliatti all’ambasciatore sovietico a Roma Kostylev nel 1948, che è stato, peraltro, confermato dallo studio di Zaslavsky su Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondatori, 2004). Alla luce di questa scelta, è possibile capire il mini esodo di comunisti dall’Italia verso i territori ceduti alla Jugoslavia di Tito ( parallelo e contemporaneo a quello, ben più vasto, di italiani che fuggivano di fronte all’arrivo degli slavi). Fra i protagonisti di tale esodo ci furono non pochi criminali, aiutati e protetti dalla dirigenza del PCI che, nel nostro paese, si erano macchiati di crimini politici ( e non solo). Molti provenivano dal famigerato triangolo della morte. La ricerca condotta dagli autori individua uno di questi e lo indica con lo pseudonimo “ Beta” ( alias Dante Bottazzi), lo stesso utilizzato da Pansa nel suo Il sangue dei vinti. Questi, espatriato a Fiume, grazie alle protezioni politiche, assunse nuove generalità, conducendo una tranquilla vita da insegnante. Le autorità, locali e italiane, erano a conoscenza della sua storia, ma nessuno se ne è realmente preoccupato. Di questa vicenda, emblematica di un’intera epoca, aveva già parlato, nel 1951 sulla Settimana Incom, Enzo Biagi, successivamente se ne erano occupati Paolo e Giorgio Pisanò, nel loro Il triangolo della morte ( Mursia, 1992), naturalmente inascoltati. Si può affermare, senza alcun rischio di venir smentiti, alla luce dei documenti esistenti presso la Fondazione Gramsci , che i comunisti fuggiti, per le stesse ragioni del compagno “Beta” dall’Italia, furono settanta a Fiume, duecento a Zagabria, centoquarantacinque a Saraievo. Molti di essi, al servizio dell’OZNA, furono protagonisti in negativo, delle lotte tra stalinisti e seguaci di Tito.

Tutto ciò, nel volume, è ricostruito, oltre che sui documenti, attraverso le interviste a Luciano Giurcin, Giacomo Scotti, Alessandro Damiani, Alessandro Lekovic, uomini che hanno svolto, all’interno della comunità italiana, un ruolo di primo piano e che, di quegli anni convulsi, hanno conservato la memoria storica. Le loro testimonianze, pur presentando delle comprensibili reticenze autogiustificatorie, evidenti soprattutto nell’intervista rilasciata da Lekovic, riescono a ricostruire, pienamente, il clima di sospetto e di diffidenza di quel difficile periodo. Ha, pertanto, pienamente ragione, Augusto Sinagra, a proposito dei delitti impuniti compiuti in questa regione quand’essa apparteneva ancora al nostro paese, a sostenere la sussistenza della giurisdizione penale italiana. Infatti, è ben vero che la giurisdizione fa passaggio con la sovranità territoriale, ma è evidente che tale principio esplica la sua operatività per il futuro e non già per il passato: cioè per i fatti avvenuti successivamente al passaggio della sovranità territoriale dall’Italia alla Jugoslavia, e non già per i fatti verificatisi precedentemente. Al di là degli aspetti giuridici, questo libro, come del resto tutta la storiografia revisionista ( ma esiste una storiografia che effettivamente non sia tale per definizione?), ha il merito di aver pareggiato il conto con la vulgata , di de feliciana memoria , diffusa e consolidata dai vincitori. Al riguardo, significativamente, lo stesso Sinagra ricorda l’affermazione di Sofocle, secondo la quale nessuna menzogna può resistere a lungo all’usura del tempo.

Ora, dunque, deve aprirsi, lo speriamo, una nuova pagina nella ricerca intorno alla guerra civile. Essa dovrà evidenziare realmente le ragioni degli uni e degli altri, dei vincitori e dei vinti, al fine di poter riscrivere, finalmente, pagine di memoria, non dico condivisa, ma caratterizzata da un atteggiamento sine ira et studio, in particolare sotto il profilo umano. Se ciò non dovesse accadere, la morte della Patria, diverrà fatto irreparabilmente compiuto. Dell’Italia, allora, potremo parlare solo mestamente, il che, per la verità, già oggi avviene, e non più in termini di Patria, ma semplicemente di paese.

GIOVANNI SESSA
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