Salvemini, l’uno, nessuno e centomila della politica.

Talvolta le biografie politiche assomigliano a un gioco vagamente unfair. Perché, stimolato dai problemi del suo tempo, lo storico tende a ritagliare e valorizzare singoli momenti di quell’esperienza di vita, rischiando di mutilarne la complessità. E al contrario perché, avendo a disposizione il senno del poi, è portato a valutare coerenze o incoerenze, intelligenza o errori del suo personaggio alla luce di un bilancio complessivo della vicenda biografica e di un’astratta corrispondenza tra propositi e risultati. Come se, nella vita di un individuo, si volesse trovare una sorta di ispirazione unitaria, nitida e lineare, e se ne facesse il metro di giudizio di un’intera esistenza.

Nel volume Gaetano Salvemini (Il Mulino, pp. 313, euro 25), che esce nel cinquantenario della morte dello studioso pugliese, Gaetano Quagliariello evita (per lo più) questi rischi. Storico tra i più acuti e laboriosi e, al tempo stesso, senatore e maître à penser di Forza Italia, Quagliariello riconosce onestamente che alcune sottolineature tematiche della vicenda salveminiana gli sono state suggerite dalle preoccupazioni politiche dell’oggi e dalla propria scelta di schieramento: come la questione del rapporto tra cultura liberaldemocratica e cattolici, notoriamente tra le più dibattute della Seconda repubblica. Ma, nel complesso, la passione politica di Quagliariello e la passione politica di Salvemini non fanno corto circuito, forse perché restano ampi margini di diversità ideologica e caratteriale tra i due (e l’identificazione con il proprio oggetto di ricerca, si sa, è tra i rischi maggiori dello storico) e soprattutto perché l’ autore non forza la sua documentazione, né pretende di trovare coerenze dove non ci sono.
Maneggiare un personaggio come Gaetano Salvemini, del resto, è quanto mai arduo. Socialista e liberale, marxista ed elitista, antimassonico e anticlericale, antifascista e anticomunista, Salvemini non ha mai avuto un posto stabile nel pantheon politico italiano. O ne ha avuti troppi e contraddittori. Di volta in volta, tirato per la giacchetta da esegeti gramsciani, crociani, azionisti, eccetera. Cercare il filo rosso di una vicenda così articolata non è agevole e forse non è sensato. Tanto più che quelle sue battaglie verbali, sempre drastiche, estreme, a volte rozze, possono facilmente confondere le idee. «Salvemini è troppo poco complicato per essere capito», scriveva nel 1922 Piero Gobetti. Un paradosso geniale, se si ripercorrono i giudizi netti come la lama del rasoio che il deputato pugliese scaglia contro i faccendieri della «banda giolittiana», le inconcludenze dei socialisti di Turati, i politici assetati di «automobili ministeriali», il totalitarismo simmetrico di Pio XII e di Stalin e delle loro creature, democristiani e comunisti. E via dicendo. Ma si tratta di fuochi che si accendono in precisi contesti e che non vanno scambiati per il marchio di fabbrica di un’ intera biografia. «Dittatura per dittatura, preferisco quella di Mussolini a quella di Giolitti», aveva detto nel 1923, e però, venticinque anni dopo, avrebbe giudicato la storia dell’ Italia liberale, giolittismo compreso, come una democrazia in cammino. Con una flessibilità analitica ignota ai polemisti vociani. Il fatto è che, messa da parte «la sua primitività di stile» (cito ancora Gobetti), le valutazioni e le battaglie politiche di Salvemini appaiono tutt’altro che ingessate. Lo stesso anticlericalismo, per cui va famoso, esplode non prima del 1929, con «la bomba del Concordato», e non è che l’ ultima fase di una lunga strategia di attenzione nei confronti del problema cattolico.

Nei decenni precedenti, Salvemini si era rifiutato di leggere il Paese alla luce della contrapposizione clericali-anticlericali, distinguendo tra una Chiesa delle istituzioni e una Chiesa nazionale, tra uomini del Vaticano e popolo dei credenti. Dopo la riforma elettorale del 1912, aveva sperato che il voto cattolico desse una spallata ai vecchi partiti notabilari. E, all’indomani del 1919, si era convinto che fossero i popolari di Sturzo gli unici a poter contrastare l’ egemonia di Mussolini sugli ansiosi ceti medi del dopoguerra, auspicando un’ alleanza antifascista tra socialisti e cattolici. Sarà soltanto a partire dagli anni Quaranta, con la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi, che Salvemini finirà per riversare sulla nuova Dc la feroce polemica contro la Chiesa concordataria. Senza mezzi termini. Il partito degasperiano gli appare come il cavallo di Troia del Vaticano, il braccio politico del «regime clericale totalitario». E, di fronte a un simile pericolo, la stessa pregiudiziale anticomunista vacilla. Nel 1957, convinto che l’ alleanza dei laici con la Dc sia troppo subalterna per arginare la deriva clericale, suggerirà agli «Amici del Mondo» l’ ipotesi di una qualche forma di azione comune con il partito di Togliatti. In prospettiva e, naturalmente, in funzione antidemocristiana. Un’ opzione che verrà messa in pratica da non pochi «compagni di strada», annota polemicamente l’ autore. Questo è Gaetano Salvemini, sembra intendere Quagliariello. Il critico del nascente partito di massa («chiesuola coi suoi preti e i suoi papi»), al quale contrapporrà tuttavia un partito d’ opinione leggero, programmatico, trasversale, che è troppo innovativo per non essere anacronistico.

L’ osservatore acuto che coglie l’importanza sociologica del partito cattolico, ma poi soccombe ai propri incubi vaticani. L’ alfiere delle libertà che lotta contro il Pci e l’ anticlericale che apre al Pci. L’ uomo del concretismo, che vorrebbe licenziare i prestigiatori delle ideologie, e il «pazzo malinconico» (come lui stesso si definisce) che approda alla violenza deprecatoria dell’ antitaliano. Ce n’ è quanto basta per farsi una ragione delle molte e contraddittorie interpretazioni che ne sono state date dagli studiosi e in sede di dibattito pubblico. Da Adolfo Omodeo a Lelio Basso e Paolo Spriano, passando per un giovane Mussolini. Per parte sua, con una goccia di autoironia, Gaetano Quagliariello chiude il proprio libro citando quel che Salvemini aveva confessato nel 1931 a Élie Halévy: «Voi siete uno Storico puro, io ho la sfortuna di essere per metà uno storico e per metà un politico».

PAOLO MACRY
In «Corriere della Sera», 8 settembre 2007