La rivista “Geopolitica” e la questione delle terre irredente tra ambizioni scientifiche, politiche e territoriali

di Arrigo Bonifacio

//Nel gennaio del 1939 uscì il primo numero di “Geopolitica. Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale, coloniale”, rivista fondata dai geografi Ernesto Massi e Giorgio Roletto grazie all’appoggio politico e materiale del ministro per l’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai. Il principale obbiettivo scientifico di “Geopolitica” era quello di strutturare un approccio italiano all’omonima disciplina – la geopolitica – affermandone lo status scientifico come disciplina geografica. La rivista aveva però anche degli obbiettivi di natura politica, ed in particolar modo ambiva a fare della geopolitica «una base dottrinaria della politica estera fascista». Svariati studi hanno evidenziato come globalmente “Geopolitica” fosse principalmente espressione della peculiare realtà politico-culturale della città di Trieste, presso il cui Ateneo era inserito quell’Istituto di Geografia, sede della Direzione della rivista, dove insegnava il piemontese Giorgio Roletto e dove si era formato accademicamente l’altro condirettore di “Geopolitica”, Ernesto Massi, geografo triestino che per primo aveva “importato” in Italia la geopolitica, disciplina che fino a quel momento si era sviluppata soprattutto in Germania.

Presso il medesimo Istituto erano poi attivi numerosi altri redattori e collaboratori della rivista, quali Eliseo Bonetti, Livio Chersi, Renata Pess, Carlo Schiffrer e Dante Lunder. Ad ogni modo collaborarono con “Geopolitica” «tutti i geografi [italiani] dell’epoca»: la creatura di Roletto e Massi era dunque dotata di una rete ben ramificata anche al di fuori dell’Istituto di Geografia dell’Università di Trieste e si estendeva un po’ a tutto il Regno, per farsi però particolarmente fitta a Milano e a Pavia, dove Ernesto Massi era docente di Geografia Politica presso l’Università Cattolica di Milano e la Regia Università di Pavia.
La rete di “Geopolitica” non era tuttavia di natura esclusivamente accademica: Massi e Roletto erano infatti vicini sia all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (d’ora in avanti ISPI), istituzione notoriamente vicina agli ambienti del Ministero degli Affari Esteri, sia alla Scuola di Mistica Fascista Sandro Italico Mussolini. Per comprendere la vicinanza di Massi e Roletto a questi due enti, entrambi nati negli ambienti dei Gruppi Universitari Fascisti (d’ora in avanti GUF) milanesi e pavesi, basti ricordare che entrambi i direttori di “Geopolitica” erano anche collaboratori di “Dottrina Fascista”, la rivista della Scuola, mentre per quello che riguarda l’ISPI i rapporti furono così stretti che per anni si vagliò l’ipotesi di creare presso l’Istituto di Geografia dell’Ateneo giuliano una sede distaccata dell’ente milanese.

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Il testo completo del saggio in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX, pp. 9-43.

Ugo Spirito. L’uomo la cui filosofia incarnò lo spirito del Novecento

di Danilo Breschi

//Ugo Spirito è stato un filosofo molto apprezzato, molto studiato e molto amato (specialmente dai suoi studenti) in Italia e in Europa fino al 1979, anno della sua morte. Piuttosto che un successo postumo, com’è il caso di Nietzsche ad esempio, a Spirito è toccato in sorte un grande, enorme successo in vita. È stato un filosofo la cui fama è persino cresciuta nel dopoguerra repubblicano e antifascista, nonostante fosse stata già consistente durante il periodo tardo-monarchico e fascista, quando egli assurse in certi momenti a “consigliere del Principe”, grazie al ruolo di intellettuale di riferimento, per l’ala movimentista e “rivoluzionaria”, riconosciutogli da Giuseppe Bottai soprattutto nei primi anni Trenta e nei primi anni Quaranta. Spirito non abbandonò mai le speranze di un rivoluzionarismo fascista sino alla vigilia del crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943), a dispetto di quanto ebbe sempre a ricordare e poi a scrivere perentoriamente nelle sue Memorie di un incosciente, sorta di testamento spirituale pubblicato un paio d’anni prima della morte.
“Spirito del Novecento”: così recitava il titolo della monografia che nel 2010 ho dedicato all’analisi del filosofo aretino. Il gioco di parole era cercato ben oltre l’intento ludico. Intendeva indicare l’essenza della figura di Spirito, il suo carattere paradigmatico. Riassunse nella sua vita e nella sua opera, che hanno anagraficamente attraversato ben tre quarti dell’intero Novecento, il ruolo e la natura dell’intellettuale-ideologo nel corso di quello che è stato, per eccellenza, il secolo delle ideologie e delle rivoluzioni. Spirito e il Novecento sono stati specchio l’uno all’altro. L’uno, il filosofo di quel determinato secolo e la sua autocoscienza, l’altro, il campo di sperimentazione e la fonte di ispirazione del pensatore che, più di molti altri, ne è stato un fedele interprete. Fu il coerente portavoce di un secolo apparentemente incoerente, ma che proprio grazie a filosofi come Spirito si rivela permeato di una logica più lineare di quanto si possa pensare, tale per cui la prima metà del Novecento spiega gran parte della seconda. Ed un simile ragionamento vale per il mondo intero, e non soltanto per l’Europa. Si è infatti passati dall’imperialismo alla globalizzazione, in politica internazionale. Dall’irrazionalismo al post- modernismo, in filosofia. Dall’euforia smisurata alla depressione cronicizzata, nella psicologia collettiva delle società occidentali. Sempre e comunque, forme di nevrosi. Dalla presunzione di sapere, e potere, tutto, all’incoscienza, e impotenza, altrettanto totali.
Il fatto che la morte di Spirito, avvenuta il 28 aprile 1979, abbia sostanzialmente coinciso con la progressiva marginalizzazione della sua opera, nonostante l’encomiabile attività scientifica della Fondazione ad egli intitolata, che fu ben presto istituita e che negli anni Novanta fu presieduta da uno storico di larga fama come Renzo De Felice, sta a significare una sola cosa: che il Novecento è finito in anticipo. Finito come secolo delle religioni politiche e del messianismo rivoluzionario. Negli anni Ottanta iniziava a muovere i suoi primi passi tutta un’altra storia. Non per questo il Novecento è stato un “secolo breve”. Al contrario: era iniziato molto prima, probabilmente nel 1789. Ma terminò, sotto questo profilo, nel 1989, esattamente duecento anni dopo.
In tal senso Francis Fukuyama andrebbe riabilitato rispetto alle semplicistiche interpretazioni che tuttora lo liquidano come l’ingenuo portavoce dell’ottimismo reaganiano e liberista. Interpretazioni che sospetto siano il frutto di una mancata lettura e di un pregiudiziale sentito dire.

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Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018, pp. 121-132.

La guerra rivoluzionaria di Ugo Spirito

L’inedito pubblicato nel 1989

di Rodolfo Sideri

//Nel suo Diario 1935-1944, Bottai racconta che il 29 novembre 1941, Mussolini gli restituì un dattiloscritto di Spirito intitolato Guerra rivoluzionaria, esprimendo un giudizio sostanzialmente critico: «Lo trova intelligente, ma contraddittorio» per la distinzione borghesia-proletariato e indicava il punto debole della tesi laddove, riconosciuta l’ineluttabilità dell’egemonia tedesca, additava all’Italia il compito di mitigarla in un teatro bellico dove i metodi tedeschi – diceva Mussolini – erano sotto gli occhi di tutti e l’Italia arrancava dietro l’alleato. Era significativo che il testo di Spirito fosse presentato al Duce da Bottai, mentore del filosofo insieme a Gentile, o addirittura sia stato da lui commissionato. Il gerarca era colui che maggiormente si stava spendendo, tanto con la sua azione di ministro dell’Educazione Nazionale quanto come direttore di «Critica fascista» e «Primato», per coinvolgere e mobilitare gli intellettuali. Un’azione che richiedeva di spostare sul terreno culturale il conflitto in atto e quindi ideologizzarlo e trasformarlo in un cambiamento storico che era compito degli intellettuali discutere se non determinare.

Giuseppe Bottai

Ugo Spirito era forse l’esempio paradigmatico di come Bottai intendesse la figura dell’intellettuale, costantemente volto a dare all’analisi dei fenomeni storico-politici in atto un’impostazione idealistica. Del resto, lo stesso Spirito, nella sua autobiografia intellettuale, afferma che il fascismo «non spunta all’improvviso come un fungo imprevisto, ma è il frutto di un lungo processo […]. Possiamo dire che le sue radici sono nei principi del nuovo idealismo italiano, in antitesi col vecchio positivismo». Addirittura, la fondazione del fascismo viene dal filosofo retrodatata al gennaio 1918, quando Giovanni Gentile iniziava la docenza all’università di Roma con la precisa intenzione di educare i suoi studenti alla coscienza storica del passato della storia nazionale e alle esigenze del presente, in modo da consentire loro di sviluppare la fede nell’idea di nazione, fuoriuscendo dall’inautenticità di una vita dominata dall’egoismo e dall’utilitarismo individuale. Anche per Spirito, dunque, il fascismo non era derubricabile a mera reazione alle violenze del biennio rosso, rappresentando piuttosto un’esigenza storica della vita nazionale. Spirito non ripudia l’entusiastica adesione a questo fascismo, nutrito di idealismo e validato da una riforma della scuola che diede all’idealismo una sorta di monopolio ideologico all’interno della nuova èra che si apriva. Le cose cominciarono a cambiare con i Patti Lateranensi, in virtù dei quali «l’attualismo veniva negato in forma perentoria e a tempo indeterminato>.

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Il saggio completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018, pp. 95-110.

 

La cultura dell’irredentismo nel Fondo archivistico Ernesto Massi

Ernesto Massi rappresenta uno degli esempi migliori di quello che gli storici e i geografi hanno attribuito alla città di Trieste e alla sua cultura mitteleuropea, ovvero il crocevia di tre diverse tradizioni culturali e politiche: la cultura italiana o latina, la cultura slava e la cultura tedesca.

Ciò emerge con forza non soltanto dalla biografia del geografo e politico triestino, ma anche dalla visione del mondo che animò lo studioso nel corso di tutta la sua esistenza. Elementi questi che troviamo presenti nell’Archivio e nella biblioteca dello studioso triestino, conservati presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

Nel corso della sua esistenza, Massi riuscì infatti a conciliare il cattolicesimo (con la sua giovanile iscrizione alla FUCI) con l’idea di nazione; il corporativismo cattolico e fascista; l’adesione alle idee di Romolo Murri fondatore della Democrazia Cristiana; la visione monarchica e repubblicana; l’adesione all’idea millenaria di Roma che giungeva attraverso il Cristianesimo sino al fascismo; nonché la capacità di conciliare la visione del mondo dello Stato etico di origine gentiliana con quella spirituale della tradizione cattolica (ovvero sintesi fra idealismo e cattolicesimo); e ancora una visione di sintesi della tradizione risorgimentale (che contempla tutti i “padri della patria” da Gian Domenico Romagnosi, a Melchiorre Gioia e Carlo Cattaneo, fino a comprendere Giuseppe Mazzini e il socialismo nazionale Carlo Pisacane) che muove dalla Sinistra storica (con le sue componenti: irredentismo; socialismo nazionale; nazionalitarismo dell’anarcosocialista Andrea Costa) e che si salda con la visione soreliana dei sindacalisti rivoluzionari fautori dell’intervento militare nella Grande Guerra, i quali riscoprono l’idea di nazione avvicinandosi alla “religione della patria” nel corso del primo conflitto mondiale e poi confluiscono nel movimento fascista attraverso il sindacalismo nazionale, a partire dal dopoguerra.

È evidente che nel “pantheon ideologico” di Massi tutti i movimenti politici erano ben accetti, purché facessero propria l’idea di nazione e si riconoscessero nella visione dell’Italia generalmente condivisa. La stessa idea di nazione però – nel pensiero di Massi – non poteva esistere senza una visione sociale che rendesse tutti i ceti partecipi del benessere generale.

Ma partiamo dalle origini. Alla base della nazione sociale del geografo triestino vi è l’irredentismo, che è stato un grosso fattore di nazionalismo, come hanno sottolineato alcuni storici come Giovanni Sabbatucci. Una delle condizioni necessarie per lo sviluppo della componente irredentista è stata la presenza nella fase risorgimentale di un nazionalismo d’ispirazione democratica e mazziniana.

Nel corso dell’Ottocento, la presenza dei valori del nazionalismo democratico e mazziniano è servita a tener desto un sentimento patriottico che si è tradotto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, in un nazionalismo antidemocratico ed imperialista.

Massi nacque a Trieste nel 1909, quando ancora la città era parte integrante dell’impero austro-ungarico. Il suo vero nome era Ernesto Maček, ereditato dal padre di origine croata o slovena e alto ufficiale della Marina austriaca. La madre invece di origine italiana, si chiamava Enrica Codaglio. L’infanzia e le elementari le trascorse nella città di Graz dove frequentò le scuole elementari del posto, imparando a parlare e a scrivere correttamente la lingua tedesca. Viceversa, frequentò le scuole medie inferiori e superiori a Trieste nella fase in cui terminata la Grande Guerra la città venne annessa al Regno d’Italia. Nel 1926, dopo l’avvenuta iscrizione all’Università di Trieste, cambiò il cognome da Maček in Massi, in linea con il Regio Decreto promulgato in quell’anno.

Nel corso della sua frequenza presso la facoltà di Economia e Commercio, Massi ebbe modo di sostenere anche un paio di annualità di Lingua e Letteratura serbo-croata. A dimostrazione del suo rapporto con la cultura del mondo slavo, per tradizione familiare (il padre era di origine croata).

Durante il suo percorso universitario conobbe Giorgio Roletto, docente all’epoca di Geografia economica all’Istituto di Studi superiori di Trieste, che gli propose di collaborare con lui nella realizzazione di una corrente tutta italiana di geopolitica, traducendo le opere in tedesco del fondatore della geopolitica tedesca Karl Haushofer, che aveva iniziato nel 1924, a Monaco, la pubblicazione della rivista Zeitschrift für Geopolitik, con l’apporto di una serie di allievi e studiosi. Ma la figura di studioso eclettico e multiforme, frutto del suo rapporto con la città di Trieste, emerge anche durante gli anni Trenta, per l’esattezza nel 1934, quando giunto a Milano iniziò a collaborare in qualità di assistente volontario con la cattedra di Libertade Nangeroni all’epoca docente di Geografia presso la facoltà di Lettere della Università Cattolica del Sacro Cuore. Nangeroni aveva chiesto al rettore dell’Università Cattolica Padre Gemelli di poter contare su un assistente per poter affrontare il numero crescente di studenti che sostenevano l’esame con la sua cattedra e aveva segnalato il giovane Massi affermando che era un giovane geografo molto promettente. Gemelli aveva dato il suo assenso sottolineando che però non era in quel momento possibile pagarlo e che forse avrebbe potuto ambire ad uno stipendio solo negli anni a venire.

Due anni dopo, siamo nel 1936, Massi divenne ordinario, ottenendo la cattedra di Geografia economica alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica. Negli stessi anni, lo studioso triestino iniziò a collaborare con l’Istituto Coloniale Fascista di Milano e con i suoi colleghi della Cattolica, soprattutto con Amintore Fanfani e Francesco Vito per la comune adesione al corporativismo cattolico e per un aperto sostegno al colonialismo italiano all’interno dell’ICF lombardo.

Nel 1936 guidò l’ICF milanese in un lungo tour nella Germania nazionalsocialista per celebrare i centocinquanta anni della Società geografica di Francoforte e l’anno dopo (1937) di nuovo per un incontro con il Ministero delle Colonie della Germania nazionalsocialista dove tenne due discorsi in tedesco. Al contempo, nel 1937, iniziò ad insegnare Geografia politica ed economica presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia, entrando in contatto con Nicolò Giani presidente della Scuola di Mistica Fascista di Milano e docente di Sindacalismo e cultura corporativa presso lo stesso Ateneo e il Politecnico di Milano. Sempre nel 1937, divenne presidente dell’INCF (Istituto Nazionale di Cultura Fascista) di Pavia.

Con Fanfani e Vito frequentò l’Istituto coloniale fascista di Milano, tenendo conferenze sulle colonie e il colonialismo italiano e a partire dal 1935 assumendo la carica di direttore culturale dello stesso. Allo stesso tempo tenne una serie di relazioni sempre nel capoluogo lombardo e in altre città della Lombardia per la Scuola di Mistica Fascista, collaborando e intrattenendo relazioni politico-culturali con Giani, che rinsaldò dopo l’avvenuta nomina di quest’ultimo alla direzione del quotidiano “La Cronaca Prealpina” di Varese nel novembre del 1937.

Nel frattempo, Massi proseguì a collaborare con il suo mentore Roletto tenendo conferenze presso l’Università di Trieste, dove per un breve periodo di tempo insegnò presso la facoltà di Giurisprudenza, ancora con l’Istituto Coloniale Fascista della stessa città e in altre città dell’Italia del Nord, come Trento, Gorizia ecc. Nel 1940, partecipò al Convegno della Mistica Fascista in qualità di collaboratore della rivista della Mistica “Dottrina Fascista” e di rappresentante della rivista “Geopolitica”, fondata nel gennaio 1939 insieme a Roletto, dopo aver ottenuto il sostegno di Padre Gemelli che lo aveva inviato con una breve lettera di presentazione dall’allora ministro dell’Educazione nazionale, Giuseppe Bottai, che diede il placet alla pubblicazione del periodico. Partito volontario nel marzo del 1941 per partecipare alla Seconda guerra mondiale, venne inviato prima in Jugoslavia, come tenente dei bersaglieri e dove lavorò con l’intelligence italiana per favorire i rapporti fra italiani, tedeschi e croati, grazie alla sua perfetta conoscenza del tedesco e del serbo-croato. Nella Jugoslavia dell’epoca intrattenne rapporti con gli ustascia visitando anche il quartier generale di Ante Pavelic. Successivamente venne inviato sul fronte russo per favorire le relazioni con il comando tedesco della Wehrmacht. Dopo essersi distinto per coraggio e disciplina sul fronte orientale e nello scacchiere della Sicilia occidentale ricevendo tre medaglie al valor militare, nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Nel secondo dopoguerra venne epurato per aver aderito alla RSI, perdendo la possibilità di insegnare all’Università e iniziando a lavorare per l’imprenditore Pernigotti. Solo nella seconda metà degli anni Cinquanta, grazie all’interessamento di Ardito Desio, geologo e alpinista italiano, ottenne di nuovo la possibilità di insegnare presso l’Università Statale di Milano.

Nel 1946 partecipò alla fondazione del Movimento sociale italiano, soprattutto mettendo insieme le forze rimaste a Milano e in tutta la Lombardia, venendo nominato vice segretario nazionale. Negli anni successivi diede il suo apporto alla formazione dei giovani militanti e aderenti al Msi, partecipando ai campi estivi che si tenevano annualmente in Italia settentrionale (San Genesio).

Durante la sua militanza prima nel Msi, poi nel Partito nazionale del lavoro e infine in Nazione sociale, proseguì a supportare le sue tesi politiche connotate da un deciso eclettismo e da una componente culturale multiforme, che sosteneva lo sviluppo dei Nuclei Aziendali di Azione Sociale (Nadas), costituiti all’interno delle imprese dal Msi, subito dopo la nascita del partito, avvenuta il 26 dicembre 1946. Tali organismi dovevano riunire imprenditori e maestranze in un rapporto di collaborazione reciproca, in funzione del bene superiore della nazione, con evidenti analogie con la forma di governance della compartecipazione (Mitbestimmung), applicata con successo in Germania a partire dal secondo dopoguerra.

Andrea Perrone 

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 173-177.

Per approfondire:

a Ernesto Massi è dedicata la sezione monografica Ernesto Massi tra geografia e politica in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX, pp. 9-183, con contributi di Arrigo Bonifacio, Michele Pigliucci, Andrà Perrone, Lorenzo Salimbeni, Gianni Scipione Rossi, Rodolfo Sideri, Gaetano Rasi.