Costruzione di una tradizione: l’Aeronautica militare e la nascita di un pantheon mitopoietico (1923-1937)

di David Rettura

//L’Aeronautica è impegnata sin dalla sua fondazione, nel 1923, in un compito tutt’altro che marginale per una forza armata: tra i suoi ranghi vi è una sicura e precoce consapevolezza di dovere costruire un sistema di miti e tradizioni che possano stare a supporto dei valori che essa ha scelto di veicolare; nel caso particolare dell’Arma Azzurra questi sono poi contigui a quelli del governo dell’epoca. Tutto questo avviene principalmente attraverso l’utilizzo della tradizione maturata dagli aviatori italiani durante la Prima Guerra Mondiale, quando ancora facevano parte dei ranghi dell’Esercito e della Marina, e di questa tradizione la punta di diamante era rappresentata dalla figura di Francesco Baracca, che degli aviatori italiani era stato il più famoso; non mancarono però i tentativi di costruire una mitologia del tutto autonoma e questi proseguirono sino alle soglie del secondo conflitto mondiale.
Il bisogno di statuire il carattere di nazionalità e necessità dell’arma aerea è sentito da subito e lo fa Rodolfo Gentile, allievo dell’Accademia, sulle pagine della «Rivista Aeronautica» nell’agosto del 1925, quando affidando alla penna le sue riflessioni di giovane militare si lascia andare all’epica perché

<si è accoppiata alla conquista dell’aria qualche cosa di non meno sublime: la Patria. E, sorella ultima ma non meno gagliarda delle altre armi, l’Aeronautica vola per i nostri colori, per la difesa delle nostre città, ed il rispetto della nostra Nazione, per la nostra vittoria immancabile>

e risulta evidente che le imprese militari aeronautiche

<hanno motivi lirici superbi, che nelle guerre moderne non si incontravano più. Prima degli ”Assi” luminosi nella loro aureola di gloria, bisognava cer- care spunti di eroismo nelle gesta dei cavalieri senza macchia, fra i puri eroi cristiani del lontano medio evo, o piuttosto fra gli eroi omerici dell’Ellade antica, i quali più si avvicinano nella loro compiuta perfezione eroica ai volatori di oggi>.

Ancora più importanti le parole che compaiono nel dicembre del 1925 sulla «Rassegna Italiana», e che vengono ripubblicate sulla «Rivista Aeronautica» con il titolo L’arma dell’aria: portano la firma di Ruggero Piccio, che era all’epoca Capo di Stato Maggiore della Regia Aeronautica ed era stato nel conflitto mondiale tra gli Assi.

[…]

Il saggio integrale in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2012-2013, a. XXII-XXIII, pp. 49-67.

Un guascone nel Novecento: Valerio Pignatelli di Cerchiara

Valerio Pignatelli

di Andrea Cendali Pignatelli

//La figura di Valerio Pignatelli di Cerchiara mi ha sempre affascinato. Nato a Chieti nel 1886, ufficiale di cavalleria, pluridecorato al valor militare, ha avuto un’esistenza avventurosa fra guerre, fascismo ed intrighi politici di ogni genere. Ha partecipato alla campagna di Libia, al primo conflitto mondiale confluendo nei reparti degli Arditi d’Italia, alla guerra d’Etiopia nel 1935-36 ed a quella civile di Spagna nel 1938. Addetto diplomatico in Russia nel 1924, ha avuto incarichi in vari paesi per conto del Ministero degli Esteri. Giornalista e romanziere, ha fondato e diretto il periodico “l’Ardito d’Italia” ed è stato autore di cine-romanzi scritti negli anni Trenta del secolo scorso e pubblicati da Sonzogno, per ricalcare le avventure e le gesta di Andrea Pignatelli di Cerchiara, suo antenato, generale napoleonico al fianco di Gioacchino Murat. Aderì alla Rsi sul finire dell’era fascista, e fu poi tra i promotori della costituzione del Msi nel 1946, per distanziarsi subito dopo dalla compagine. Ritiratosi a vita privata, è morto a Sellia Marina, in Calabria, nel 1965. 
Ho sintetizzato in poche righe una vita intensa ed avventurosa, che varie fonti bibliografiche riportano più estesamente, con la ricchezza di più particolari. In questa sede mi fa invece piacere – e probabilmente riesco a dare un contributo di conoscenze ed informazioni nuove – ripercorrere tutto un epistolario, a me pervenuto, di Valerio con la madre, Emilia Pignatelli Valignani, la sorella Maria ed il cognato Antonio Basile, detto Nino, generale medico nell’esercito, oltreché con diverse altre persone con cui ha avuto consuetudine di rapporti. Conoscenze e informazioni pervenutemi anche dai racconti e dalle descrizioni fattemi dalla sorella Maria, per me nonna per aver cresciuto mia madre Andreina Pignatelli, detta Dedée, dopo che questa era arrivata a Chieti nel 1917, orfana di Andrea Pignatelli, caduto sul campo di Monastir, in Serbia, nella Grande Guerra; oltre che madre adottiva per aver adottato mia sorella Micaela, detta Miky, e me nel 1965. Conoscenze forse lievitate per essere state tramandate oralmente da una sorella orgogliosa delle gesta del fratello, ad un nipote tutto orecchi e curioso oltre ogni li- mite: ma pur sempre una base per informazioni ed aneddoti altrimenti persi.
Alcune lettere, datate fra il 1907 ed il 1913, rivelano una giovanile vena poetica di Valerio, che anticipa le successive esperienze di giornalista e romanziere, maturate negli anni Trenta.

[…]

Della partecipazione di Valerio al Primo Conflitto Mondiale non vi sono tracce molto estese nel suo epistolario a me pervenuto. Da una lettera alla Madre scritta dalla Zona d’Armistizio nel 1918 senza citare giorno e mese – certamente dopo il 27-28 ottobre, dato che nella lettera si fa riferimento alla sua «compagnia che ancora risente della violenta scossa subita il 27 ed il 28 ottobre per il forzamento del Piave» – sappiamo che è stato proposto per una terza medaglia al valore, a conferma dell’impegno e del coraggio profusi per l’intera durata del conflitto.

[…]

Il saggio biografico in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, a. 2019, nuova serie, a. XXXI, pp. 227-253.

Le guerre viste da un ospedale da campo: dalla Libia a Caporetto

Filippo Petroselli, Ospedale da campo. Memorie di un medico cattolico, dalla guerra di Libia a Caporetto, a cura di Gianni Scipione Rossi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017

// La personalità di Filippo Petroselli è stimolante, complessa. Si articola attraverso diversi livelli identitari. È infatti un medico, un cattolico, è originario di Viterbo, la Città dei Papi. È un patriota che ama l’Italia, il suo paese, e che vive i turbolenti primi decenni del 900 dai quali è coinvolto in prima per- sona, come medico militare e come attivista politico, prima nel Partito Popolare Italiano e poi nella Democrazia Cristiana. È anche uno scrittore, un romanziere stimato. I suoi pensieri, le sue riflessioni, i suoi sentimenti sono, ovviamente, il riflesso del tempo che vive. La sua è la storia di un singolo, la storia di un individuo, ma proprio le sue varie sfaccettature identitarie ci consentono di tratteggiare un esempio, un “idealtipo” più completo. Attraverso la sua figura e il suo sguardo sugli avvenimenti, è possibile seguire da vicino, e meglio, le vicende di allora e come si svilupparono, i cambiamenti che originarono e le mentalità che produssero. È possibile comprendere il percorso esistenziale di un uomo, la maturazione delle sue idee a seguito delle atrocità della guerra.
Petroselli fu medico militare prima in Libia e poi nella Prima Guerra Mondiale. Prende appunti di quelle esperienze. Appunti che rielabora suc- cessivamente, tra il 1920 e il 1921, inediti, praticamente, fino ad oggi. Quello di Petroselli non è un caso singolare: la grande guerra, in particolare, aveva provocato una notevole mole di lettere e diari. Anche per l’armata italiana, se pur in grandissima parte analfabeta, il primo conflitto mondiale si rivelò un’esperienza tanto straordinaria e sconvolgente da sentire il bisogno di raccontarla attraverso epistole, appunti e note.
Fra i due conflitti mondiali è sorta una vera e propria letteratura di guerra, anche se i testi destinati a circolare furono pochi, per il perdurare delle forti limitazioni imposte alla stampa anche dopo la fine della guerra e per la censura messa poi in atto dal regime fascista. Forse è per questo che Petroselli non ha voluto pubblicare il suo diario, dove non ci sono pagine edulcorate o inneggianti il conflitto. La sua scrittura è il riflesso caleidoscopico delle immagini e delle sensazioni a cui hanno dato luogo le sue diverse sensibilità. Non solo: la scrittura si rivela strumento particolarmente efficace proprio per seguire le evoluzioni del suo pensiero sul tema della guerra, che emergono tra l’impresa coloniale e il trauma inferto dall’inutile strage che allontana definitivamente i ricordi esotici di Tripoli.
Quando parte per la Libia, come medico militare, Petroselli ha ventisette anni. La politica italiana coloniale non è mai stata una grande politica, ispirata a chiare e ben determinate direttive, mossa da un grande, o anche piccolo, principio generale coerente con gli ideali, o le ideologie, dei gruppi o partiti al potere. Non ci fu alcun disegno ispiratore, dunque. Ci fu, invece, un fenomeno emotivo prima ancora che politico e strategico. Nasceva allora la così detta “opinione pubblica”, fenomeno incoraggiato dalla campagna di stampa organizzata dai grandi quotidiani. Da qualche anno ormai i nazionalisti italiani auspicavano una guerra. Una guerra a qualunque costo e di qualunque tipo, che servisse a demolire il pacifismo, l’umanitarismo, il democraticismo, l’internazionalismo e tutti quegli ismi, insomma, che, ai loro occhi, stavano avvelenando la vita del paese, succube e depresso da anni da governi considerati deboli, “molli”, senza spina dorsale. Anche gli intellettuali non furono immuni da queste velleità. Si pensi solo a Corradini e a Marinetti (che due anni prima dell’impresa coloniale in Libia aveva pubblicato il suo manifesto futurista), i nomi più illustri, ma anche al Pascoli, che si esprimevano soprattutto attraverso riviste come “Il Regno”.


Il movimento nazionalista andò alla ricerca della “sua” guerra, di una guerra che svegliasse le addormentate energie nazionali. Il movimento era diviso tra la concezione nazionale-irredentista, che mirava alla difesa e al riscatto delle nazionalità italiane soggette ancora all’Austria, e la tendenza imperialistica, abbracciata da Corradini, che vedeva nell’espansionismo coloniale e nella guerra di conquista un “ordine morale” ed un “metodo di redenzione nazionale”. Il 1910 segna la nascita ufficiale del movimento sul piano organizzativo. Si comincia a vedere il prevalere della corrente corradiniana e, da questo momento, possiamo dire, prende le mosse la campagna nazionalista a favore della conquista della Libia, con una martellante azione di stampa condotta per influenzare l’opinione pubblica e fiancheggiata da importanti giornali come “La Stampa”, “Il Messaggero”, “Il Resto del Carlino” e poi, da ultimo, anche “Il Corriere della Sera”. Si potrebbe quasi dire che l’impresa coloniale e, in particolare, la Prima Guerra Mondiale siano sta- te volute e preparate anzitutto dai grandi organi di informazione o, almeno, da una parte di essi. Come disse Gaetano Salvemini, senza il contributo del “Corriere della Sera”, diretto allora da Luigi Albertini, l’intervento dell’Italia nel primo conflitto non sarebbe stato possibile. Era la fase, come si espresse con molta lucidità un altro contemporaneo di allora, Giovanni Amendola, della formazione dell’opinione pubblica, ossia della creazione dei motivi determinanti di una decisione.
La propaganda nazionalista cercò di infiltrarsi in ogni manifestazione della vita pubblica nazionale, ove fosse possibile inserire in qualche modo la questione tripolina. Sia in D’Annunzio che in Pascoli ci troviamo di fronte ad una stessa matrice di ispirazione nazionalistica, che in Pascoli si colorava di un vago umanitarismo, ma che, in concreto, offriva argomenti alla predicazione nazionalista. Il soldato italiano, il soldatino come lo chiamava Pascoli, fu al centro di questo grande battage che venne creato attorno all’impresa giolittiana, fra letteratura, giornalismo, pubblicistica e perfino cinematografica alle sue prime esperienze. Il soldato fu oggetto di storie mitiche ed eroiche, drammatiche e romantiche. Il paese si trovò, insomma, allo scoppio della grande guerra con un apparato di slogans e di temi già sperimentato e collaudato ampiamente.
Come s’è detto, Petroselli era un cattolico e un patriota. Non era, però, un nazionalista. Amava la sua patria e, coinvolto nel clima culturale dell’epoca, non fu estraneo ai richiami alle crociate che l’impresa libica suggeriva. Come non era estranea in lui la commozione a sentir parlare degli alpini, tra romanticismo e retorica dell’epoca:
<Fu allora che conobbi gli alpini. Italiani! Inchiniamoci a questo nome. Suona così grande! Vuol dire: valore, sacrificio, generosità, lavoro, bontà, tenacia, amore di patria. Grandi e buoni alpini, ben piantati sui polpacci gonfi dell’acciaio.>
Sono sentimenti che forse, se presi singolarmente, perdono di efficacia, ma che, se valutati assieme come un tutto, ci rendono più facile il compito della comprensione. C’era la patria con la sua retorica e il suo romanticismo, appunto, e poi c’erano la fede e la religione. Richiami sacri e profani convi- vevano e accanto al ricordo delle crociate affiorava quello della grandezza della Roma imperiale:
<Le lagrime mi velarono gli occhi quando, a sera, la fanfara intonò da prua e dominò le deserte vastità del mare e del cielo. L’inno si svolse lento, maestoso come la cadenza del vostro (degli alpini) passo potente e ferrato… (il piroscafo) avanzava sovrano nell’Ave-Maria cantata dalla fanfara: canto fermo nella Cattedrale che aveva per cupola il cielo e per lampade le prime stelle. A prua era la santa immagine della Patria.>
C’era l’entusiasmo per i propri soldati quando riuscivano vittoriosi nelle battaglie, come in quella di Ettangi, alla fine di maggio del 1913:
<Come i Crociati in vista di Gerusalemme, ognuno ha le ali al cuore, ali ai piedi. L’entusiasmo serpeggia tra le file. Gli ascari son frenati a stento dagli ufficiali.>
Ma subito dopo, Petroselli annotava:
<Il velo misterioso s’è alzato. Ettangi è solo un nome ed un pianoro rossiccio. Desolazione e deserto a perdita di vista.>

E, ovviamente, c’era l’orrore che riportava alla realtà:
<è il primo morto… altro ferito… è una ferita di striscio. Lo disinfet- tiamo con la tintura di iodio, il sanguigno disinfettante della guerra moderna. Ne ho a tracolla una fiasca. Tintura d’odio. Così spesso la chiamano i soldati analfabeti; ma fabbri inconsapevoli di una più veritiera parola…>
Un lavoro febbrile è cominciato. Il medico in battaglia non è infuocato dall’ardore del combattente… «Qui no, qui si vedono i tristi effetti del furore dell’uomo divenuto bestia. Occorre freddezza, calma, umanità per amici e nemici. Non è fascino di gloria o di morte, non c’è impeto di sangue». E ancora, più avanti nel diario, Petroselli ricorda la cattura e la tortura di un soldato turco:
<Brutta roba la guerra! La scena divenne ripugnante. Urlai, minacciai, cercai di convincerli che dopo tutto quel disgraziato difendeva la sua patria. Gli alpini, tra brontolii e sordi bestemmioni, mollarono. Gli ascari, inferociti per la morte del compagno, non volevano sapere di clemenza.>
Quel disgraziato difendeva la sua patria: un’espressione carica di significato. Indica le ragioni degli uni e degli altri, la validità, per chi le fece, di quelle scelte, a fianco della propria patria. Indica anche, forse, una maturazione ancora da venire: si vuole riscattare il compagno morto per orgoglio e il soldato turco è, appunto, considerato un soldato, non una persona. Il fattore umano deve ancora emergere. Ci penserà il primo conflitto mondiale e, ancor di più, il secondo, con i suoi cinquanta milioni di morti, a far cadere definitivamente la distinzione, adottata dalla Chiesa, tra belligeranti e civili. Ma già la Prima Guerra Mondiale, come poi riconobbe anche Sturzo, che pure ne era stato un sostenitore, così come aveva sostenuto l’impresa coloniale libica, dimostrò l’impraticabilità della dottrina della guerra giusta, tesa a moralizzare il ricorso alla forza armata. La Prima Guerra Mondiale fu una guerra secolare non riconducibile ad alcun riferimento religioso e la Chiesa non fece alcun ricorso a tale dottrina. I cattolici, infatti, vi aderirono per le ragioni patriottiche dei propri paesi. Anzi, con Benedetto XV, e con la sua nota definizione del conflitto come inutile strage, iniziava ad incrinarsi il concetto di guerra giusta. Si avviava, così, all’interno della cultura cattolica, il difficile cammino che avrebbe trovato esito nell’inammissibilità del ricorso alla religione per giustificare l’impiego delle armi (ricorso che aveva consentito di ricondurre i conflitti all’interno della morale cattolica) e poi nel riconoscimento della prassi della non violenza come criterio su cui costruire l’ordine giuridico della società. Con Benedetto XV era stato compiuto un decisivo passo avanti per sottolineare quel nesso inscindibile tra religione e pace che inevitabilmente finiva per gettare interrogativi sulla possibilità di una legittimazione della guerra da parte della Chiesa. Già durante il primo conflitto, tra l’altro, era in discussione la legalizzazione dell’obiezione di coscienza. I soldati di ritorno dalla Libia, come annota Petroselli, erano guardati con rispetto e devozione, circondati da un’aurea di sacralità, complici, anche, i reportages della stampa assolutamente lontani dalla realtà. Non fu così per i soldati di ritorno dalla Prima Guerra Mondiale. Il primo conflitto segna una cesura. Il registro stilistico della scrittura di Petroselli cambia, come si può osservare sin dalle prime frasi del suo diario. Non si lasciò prendere dall’entusiasmo irrazionale e, con una consapevolezza che non tutti i contemporanei seppero dimostrare, scriveva:
<Nessun canto… C’è la guerra che guarda… C’è molto artifizio. Entusiasmo non c’è… Leggiamo sui giornali, che Giolitti a Roma, perché dice d’andar cauti, di veder chiaro prima di giocar la carta e forse dannar l’Italia, è vilipeso, sputacchiato, accaneggiato… Lontano già brontola il cannone… C’è della gente in buonissima fede che crede la durata della guerra appena di due mesi… è moneta corrente. Guai a contraddirli! Chi osa, timidamente, osservare qualcosa che logica ed onestà suggeriscono, è jettatore, gufo, vigliacco e nemico della patria… E poi, a chi giova? Ormai il freno è spezzato, siamo sulla china.
Ancora si trovano i toni aulici e retorici, ancora si rammentano Sparta e Roma:
Da una fenestrella ammiro i fanti che salgono all’attacco. È uno spettacolo sublime. Ogni fibra mi trema d’orgoglio. È una visione di Sparta e di Roma. Ma il trauma inferto dalla grande guerra è diverso.>

All’entusiasmo, si affianca la pietas cristiana e il termine famiglia, ad indicare il rapporto coi soldati e col reparto, ritorna più volte in questa parte del racconto, a differenza della prima, sulla Libia, dove il termine non compare. Più che entusiasmo, c’è partecipazione umana.
E poi c’è Caporetto che diventa un simbolo. La disfatta di Caporetto non lascia indifferente nessuno, a prescindere dagli orientamenti politici. Per ognuno diviene simbolo di qualcosa. Per molti, sicuramente, diviene il simbolo del risveglio. Per Malaparte, ad esempio, fu il risveglio del proletariato. Per i nazionalisti e gli irredentisti fu il risveglio del sentimento patriottico.
Apparentemente e temporaneamente la guerra aveva creato un più forte sodalizio e sentimento di fratellanza. Come s’è detto, Petroselli non era un nazionalista. Era un patriota. Quale fu la sua reazione? È interessante leggerla e, quindi, “osservarla dall’esterno”: si avverte un climax, in termini di crescita personale.
Dopo Caporetto, i suoi toni e le sue emozioni sono riconducibili alla patria “offesa e calpestata” e, non a caso, il ricordo va al grande spirito di Garibaldi di fronte al quale Petroselli si commuove. E pure, la ferita di Caporetto è il salasso, che apre gli occhi ed infiamma il cuore d’Italia. A proposito di un alpino che esclama “Resistere dovemo e anca forse copar par l’Italia, no se pol tirarse in drio!” commenta:
<Segni dei tempi. È la prima volta che sentiamo parlar così. È il primo benefico effetto della disfatta… Caporetto ha stappato il cerume a molti orecchi, ha sollevato le cataratte a parecchi occhi, ha forse sve- gliato qualche cuore…
Il soldato non è più soltanto la bestia da soma e da sangue…
Timidi e valorosi, audaci e spavaldi, malaticci o feriti. Sentono la Patria che li chiama a gran voce. In ogni sguardo brilla una nota della Mar- sigliese. È la prima volta che la loro fronte è lucente. C’è la volontà di vincere o di morire. C’è l’offerta del corpo e dell’anima, c’è l’orgoglio, c’è la fede, c’è la sicurezza nello sguardo e nel cuore. Sentono premere sul petto il tallone straniero che, al di là del fiume, calpesta la patria.>
Ma poi, con toni feroci che erano stati assenti dopo l’esperienza in Libia, scriveva:
<La guerra non purifica. È una menzogna! La guerra è una melma che tutto copre e tutto imputridisce.>
E concludeva:
<Ma ora che il bavaglio è stato tolto, vorrà l’Italia una buona volta, udire la verità, la verità vera, quella che noi italiani non vogliamo mai udire.>

Caporetto è il contesto drammatico che, più di altri, porta alla luce quel caleidoscopio di sentimenti e ragioni di cui s’è detto: la patria, la fede, l’orgoglio, le atrocità del conflitto, e che porta altresì ad una lenta maturazione, in Petroselli come in tanti altri cattolici, tra i quali il già citato Sturzo, dal con- cetto di guerra come castigo di Dio al concetto di guerra come evento frutto del libero arbitrio dell’uomo che costringe, perché elemento imprescindibile, ad una decisa valorizzazione del concetto di persona, come soggetto morale con una propria dignità, anzitutto, come individuo responsabile dei propri atti e come luogo di conciliazione fra l’uomo e il patriota. Avrebbe scritto Sturzo nel ‘41: «Sento tutta la ripugnanza spirituale dell’olocausto di milioni di giovani… Anche se essi siano tutti convinti nazisti e comunisti, il che è assai dubbio, essi sono uomini come noi, hanno un’anima come la nostra; la loro morte ci deve contristare e perché uomini e perché cristiani… Non potremmo mai renderci conto delle vie della Provvidenza se non partiamo da un principio indiscusso che Dio, permettendo il male, perché rispetta la nostra libertà di agire, ne fa motivo di bene per coloro che ascoltano la voce e adempiono la sua volontà» (Le vie della Provvidenza, in “Commonweal”, New York, 21 novembre 1941). Il male, allora, non è più un castigo divino, e può diventare occasione di riflessione e di miglioramento.
La guerra è finita. «Il reparto si scioglie. Quattro anni di pene comuni, quattro anni di famiglia… Abbiamo trovato il mondo sconvolto, la parola coscienza cancellata dal vocabolario». Il diario di Petroselli si inserisce nel filone letterario della letteratura di guerra, che conta circa 1.500 opere pub- blicate. A cosa può servire questa ulteriore testimonianza? Ci sono momen- ti della storia particolarmente difficili da comprendere, perché complessi e perché molto lontani dal nostro presente. Qui si sono accennati solo pochi aspetti dei tanti che caratterizzarono quei primi decenni del ‘900, decenni così intensi in cui nacquero le grandi idee e la loro circolazione coinvolse un numero sempre maggiore di individui. Le grandi sintesi in questi casi non ci vengono incontro nel nostro sforzo di comprensione. Al contrario, è la cronaca minuta, la storia del singolo, di ogni singolo, a darci tutte le sfumature necessarie a comporre il contesto in cui si svolsero gli eventi e in cui uomini e donne si trovarono ad agire. Ecco, allora, che anche la storia di Filippo Petroselli è l’utile tassello di questa composizione.

Maria Chiara Mattesini

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX

Gubbio, immagini per il Centenario

Come da tradizione in vista delle feste natalizie si è tenuto il 14 dicembre 2018 a Gubbio (Perugia) il “Concerto sotto l’Albero”. Nel 2018 è stato dedicato al Centenario della vittoria italiana nella Grande Guerra, alla quale la città umbra ha dato un grande contributo di combattenti e di sacrificio. La Fondazione ha contribuito all’evento con la scelta e la realizzazione di un apparato iconografico d’epoca.

Todi, la Grande Guerra cento anni dopo

Con il patrocinio e la collaborazione del Comune di Todi (Perugia) la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha organizzato una iniziativa culturale nel quadro del Centenario della Grande Guerra. L’iniziativa si è articolata – tra il 28 settembre e il 17 novembre 2018 – in una serie di conferenze -incontri di analisi e approfondimento dei temi storiografici relativi al primo conflitto mondiale, con particolare riguardo al coinvolgimento degli studenti degli istituti superiori oltre che della cittadinanza tutta.
Il primo incontro si è tenuto il 28 settembre, nella Sala del Consiglio, Palazzi Comunali della città umbra con il titolo “Nulla sarà più come prima”. Hanno introdotto il sindaco di Todi avv. Antonino Ruggiano e l’assessore alla Cultura dott. Claudio Ranchicchio. Relazioni del prof. Giuseppe Parlato, ordinario di storia contemporanea nella Università degli studi internazionali di Roma, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, e del dott. Gianni Scipione Rossi, giornalista e storico, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
Il 20 ottobre l’incontro è stato sui temi “I cattolici italiani tra patriottismo e fede”, con la dott.ssa Maria Chiara Mattesini, giornalista e storica, Universita’ di Roma Tor Vergata, e “Il dopoguerra dei combattenti: divisioni e stati d’animo”, con la dott.ssa Cristina Baldassini, ricercatrice in Storia delle dot- trine politiche, Università di Perugia. Ha coordinato Gianni Scipione Rossi.
“Quando la letteratura racconta la guerra” il tema del 2 novembre, con la prof.ssa Simonetta Bartolini, docente di letteratura italiana nella Università degli studi internazionali di Roma e con Giuseppe Parlato.
Il programma si è concluso 17 novembre 2018, sul tema “Le conseguenze del conflitto tra scenario internazionale e modernizzazione”. Sono intervenuti il prof. Silvio Berardi, docente di storia contemporanea Università Niccolò Cusano Roma, il dott. Andrea Perrone della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, il prof. Marco Zaganella, docente di storia economica Università dell’Aquila, e Giuseppe Parlato.

____________________________________

Todi 28/9/2018

L’intervento di Gianni Scipione Rossi

Qualcuno di voi potrebbe pensare, per certi versi legittimamente, <basta, perché ancora la Grande Guerra. Sono cinque anni che ne parliamo>.

Il problema me lo sono posto anch’io.

In effetti sono anni che se ne parla e non si può certo dire che il Centenario sia passato sotto silenzio. Sono stati pubblicate decine di libri – talvolta non all’altezza, semplici sintesi o affreschi puramente divulgativi – e il numero di articoli, di mostre, di iniziative credo sia incalcolabile.

Ne valeva la pena? Era necessario? Naturalmente penso di si e non credo che si debba smettere di parlarne dall’anno prossimo, perché i lasciti della guerra hanno condizionato, nel bene e nel male, le vicende politiche, sociali, economiche, culturali dei decenni successivi, la nostra storia di un secolo. E molto c’è ancora da chiarire e capire.

Che se lo diciamo così – un secolo – sembra un tempo lontanissimo, quasi eterno, ma in realtà copre la storia personale e familiare di appena quattro/cinque, al massimo sei generazioni. Si parla di quello che hanno fatto, subito, costruito, sofferto, pensato, i nostri nonni o bisnonni. Se ci si riflette bene non è così lontano.

Poi, naturalmente, questa iniziativa si svolge in questo autunno che, cent’anni va, segnò la fine della Grande Guerra con la Vittoria dell’Italia.

Al 4 novembre manca ormai poco più di un mese. Ne parleremo.

Il problema è come parlarne, della Grande Guerra. Al di là dei fatti d’arme, delle battaglie, dei generali, del ruolo svolto dai protagonisti politici dell’epoca, dalla Monarchia, dagli interventisti ai neutralisti, agli irredentisti. L’elenco degli attori sarebbe lungo e articolato.

La storiografia, come sapete, è sempre in divenire. Chi pretende di aver scritto la parola fine alla ricostruzione e alla interpretazione di un evento non è un bravo storico. La continua revisione è una necessità e un obbligo, sulla base dei documenti e della loro possibile diversa spiegazione.

Revisione non vuol dire revisionismo. Che pure è un vizio ricorrente. Non solo in Italia.

Qualcuno si diverte anche a riscrivere la storia degli altri.

In questi giorni mi ha colpito una notizia. Nell’Austria guidata dal giovanissimo cancelliere Sebastian Kurz, del Partito Popolare, stanno riscrivendo i libri di storia per le scuole, orwellianamente, si potrebbe dire.

Lo hanno scoperto e rivelato Rita Monaldi e Francesco Sorti, su “La Stampa” del 24 settembre, facendo diversi esempi.

Ve ne leggo uno.

In VG3 Neu (per la scuola media, ancora Lemberger editore) il capitolo sul Risorgimento si apre con un’abile premessa: «Nel XIX secolo, ambiziosi uomini di Stato capirono che l’idea nazionale si adattava in modo eccellente al raggiungimento dei loro personali obiettivi politici. Volevano espandere i loro Stati a costo degli altri, e allo scopo utilizzarono come giustificazione l’idea nazionale. In molte parti del mondo ancora oggi si fa politica in modo simile». 

Il vero obiettivo dei leader italiani sarebbe stato “dividere l’impero asburgico”.

Cavour, Garibaldi e Mazzini diventano così un piccolo club di ambiziosi, e l’unificazione d’Italia una guerra di aggressione. Proseguono gli autori: «Il Piemonte nella seconda metà del XIX secolo si sviluppò in un moderno ed efficiente Stato-modello. Appoggiò l’idea di una divisione dell’Austria». Insomma, Cavour voleva dividere l’impero asburgico, anziché unificare l’Italia… «Con un’abile politica estera, il regno di Piemonte-Sardegna si guadagnò l’alleanza di Francia, Gran Bretagna e Prussia. L’Austria invece era isolata (…). Quando nonostante ciò rischiò e scese in guerra, le truppe alleate di Francia e Piemone-Sardegna sconfissero l’esercito austriaco, male organizzato, a Magenta e Solferino». 

Un resoconto – dicono gli autori dell’articolo e io condivido– che fa a pugni con i fatti storici: a Magenta e Solferino si combatté perché l’Austria aveva imposto ai piemontesi, assai inferiori militarmente ma alleati alla Francia, di disarmarsi entro tre giorni. L’ultimatum non venne rispettato e gli austriaci attaccarono. A Solferino gli eserciti contrapposti erano pressoché equivalenti, gli Austriaci anzi avevano un’artiglieria più consistente, ma la conduzione tattica dei francesi fu vittoriosa. 

Direte, che c’entra ora il Risorgimento e come lo vedono o rivedono gli austriaci?

C’entra, perché questa rilettura del Risorgimento è molto simile a quella che in Italia appartiene a una – per la verità non qualificata ma diffusa – corrente storiografica per così dire neo-borbonica, che ha il palese obiettivo politico-culturale di suscitare un risentimento contro l’unità d’Italia, completata cento anni fa. Una corrente che ebbe un dignitoso precursore in Carlo Alianello, e che oggi vive grazie a piccoli epigoni che ricostruiscono le vicende del Regno delle Due Sicilie infarcendo i fatti con quelle che oggi si chiamano fake news.

Ricorderete che in Puglia si è tentato di istituire una <giornata della memoria delle vittime meridionali dell’unificazione italiana>. Le quali naturalmente ci furono, come ci furono i patrioti meridionali vittime della repressione dello stato borbonico.

Il problema è, come sempre, quale uso si fa della storia. Che non dovrebbe essere politico o ideologico.

Non mancano, naturalmente, i nostalgici dello Stato Pontificio. Qualche tempo fa mi è capitato di ricordare quali erano le condizioni del Regno del Papa prima dell’Unità. Lo feci citando una lettera scritta nel 1837 al fratello dal futuro cardinale segretario di stato di Pio IX, Giacomo Antonelli, che all’epoca era delegato – cioè capo della provincia – di una delegazione pontificia che è qui vicino a noi, quella di Viterbo. Dove rimase impressionato dalla <orribile miseria che regna dappertutto, specialmente nella classe povera (braccianti)>.

Tutto questo c’entra con il nostro argomento perché la lettura della Guerra Mondiale ha attraversato due fasi storiografiche.

Dopo la vittoria prevale – ed è abbastanza scontato – la lettura retorica che ne esalta il significato patriottico dell’immane sacrificio del popolo. Non solo dei combattenti delle trincee, ma anche dalle loro famiglie, dal cosiddetto fronte interno. Esalta, questa lettura, il senso di completamento del Risorgimento insito nel ritorno alla Patria unita di Trento e Trieste.

Sottace, naturalmente, gli errori militari, e anche le speculazioni che circondarono la produzione bellica, e non solo.

Non dimentichiamo che durante la guerra e nei mesi successivi vigeva la censura militare, come in ogni altro paese belligerante. Per farvi un esempio, il libroKobilek. Giornale di battagliadi Ardengo Soffici, nella prima edizione Vallecchi del 1919, è pieno di pagine bianche tagliate dalla censura.

Non furono invece censurate nel 1916 queste pagine di Renato Serra, giovane intellettuale del circolo della Voce, partito volontario e morto combattendo sul Podgora il 20 luglio 1915. Problematico, il testo di Serra, in verità, a leggerlo tutto:

La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; (…) non vi aggiunge; non vi toglie nulle. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo.  (…)

Sempre lo stesso ritornello. La guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia. (…)

Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore. Può esserci anche qualcosa di vero, finchè si resta per quelle strade, fra quelle case.

Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sora e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti nella mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché se venga l’ora. Può darsi che non venga mai: tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta!  (…) oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza.

 Siamo comunque molto lontani dalla marinettiana guerra sola igiene del mondo.

Anche se quella sortita di Marinetti va contestualizzata nel clima della Belle Époquee del suo scivolare – a parere del poeta futurista – nel decadentismo.

D’altra parte già nel 1921 usciva il famosissimo Le scarpe al soledi Paolo Monelli sulla guerra degli alpini, che non era certo – come si direbbe oggi – politicamente corretto.

E, per fare un esempio, nel 1935 l’ufficio storico dello Stato Maggiore del Ministero della Guerra poteva tranquillamente pubblicare il diario dell’infermiera volontaria della Croce Rossa Mercedes Astuto, che non nascondeva certo le difficolta:

La mia corsia s’è empita tutta: quaranta letti quaranta operati, un’altra fila di letti anche nel mezzo, quasi tutti addominali e qualcuno cranico. Il lavoro mi spaventa; non ho per aiuto che rozzi piantoni, territoriali passati in sanità, inesperti e taluni niente suscettibili.

Questo per dire che la retorica della Vittoria non impedì la circolazione di riflessioni critiche, neppure durante il governo fascista, al quale si imputa la sacralizzazione della Grande Guerra, che, tuttavia, ci fu anche nella Francia democratica. Come era normale che accadesse.

La retorica prevalse e sarebbe stupido negarlo.

Con il passare dei decenni la retorica rimase ma cambiò segno.

È la fase della rilettura per così dire dal basso della guerra. Protagonisti non sono più i generali e i politici, ma il popolo. Non il popolo dei combattenti delusi che saranno i protagonisti del successo del fascismo. Ma il popolo minuto, con i suoi problemi, le sue paure, i suoi dolori.

Una nuova lettura necessaria, ma che col tempo è sfociata in un rovesciamento della complessa verità storica.

I generali diventano tutti incapaci e felloni. Il popolo non vuole la guerra ma semplicemente la subisce e si arrangia come può. Se si arrivò alla vittoria un anno dopo Caporetto non fu per la capacità di reazione italiana sul Piave, ma per una manciata di reggimenti inglesi. E via di questo passo.

Questi sono i paradigmi prevalenti. Che vengono ammantati di strabordante retorica in un film che molti di voi ricorderanno, e si situa nel filone del cinema neo realista.

È il 1959 quando arriva nelle sale La Grande Guerradi Mario Monicelli, con protagonisti indimenticabili Vittorio Gassman, Alberto Sordi e Silvana Mangano. Un film che si divide ex aequo il Leone d’Oro al Festival di Venezia con il bellissimo Il generale Della Roveredi Roberto Rossellini.

Grande film La Grande Guerra. E grandissime le interpretazioni di Oreste e Giovanni da parte degli attori.

Ma qual è il messaggio?

Oreste e Giovanni sono due tragici soldati da operetta. Non credono in niente. Cercano solo di evitare i pericoli e la fatica. Sono due vigliacchi. Cercano di scappare vestiti con cappotti asburgici. Solo l’esatto contrario del soldato valoroso della retorica prima maniera. Sono anti eroici e si riscattano in qualche modo solo accettando la fucilazione, decidendo di non tradire dopo le offese di un ufficiale austriaco. Un finale per altro controverso. Furono le associazioni d’arma a premere perché i vigliacchi si riscattassero.

Ma fu proprio così o invece la rappresentazione deve essere più articolata?

Sentiamo una testimonianza un po’ sorprendente, quella di Rudyard Kipling, che nel 1917 inviava dal fronte trentino le sue corrispondenze ai giornali inglesi:

Oltre all’immane sforzo richiesto (…) quello che continua a colpire l’osservatore sul fronte italiano, è l’asprezza delle condizioni in cui tutti operano: dall’austerità spartana dell’ufficio del generale Cadorna (…) al più umile dei mulattieri, che bianco di polvere da capo a piedi, ma senza una goccia di sudore in fronte, arranca sugli erti sentieri montani dietro il suo animale.  Si nota un’organizzazione flessibile ed equilibrata al cui servizio tutti si prestano con fervida abnegazione.

Kipling non era al servizio dello Stato Maggiore italiano.

Da una retorica all’altra, forse solo a cento anni di distanza si riesce a dare una lettura equilibrata della Grande Guerra. Anche grazie alle memorie dei soldati. Ormai ne sono state pubblicate migliaia.

E tuttavia il mito della guerra non voluta e solo subita dagli italiani è difficile da superare.

I questi anni del centenario è anche accaduto che in Parlamento sia stata presentata una proposta di legge per la riabilitazione dei disertori.

È un capitolo dolorosissimo. Ne furono fucilati un migliaio.

Vi leggo una testimonianza, di un giovane avvocato combattente sul Carso, Tommaso Petroselli, che fu chiamato a difendere in un processo volante alcuni di loro:

Dei miei difesi, i soldati semplici, furono condannati a vent’anni di carcere, i due graduati alla fucilazione immediata. Sentii mancarmi le forze, mentre i votati alla morte mi si gettarono al collo, implorando che presentassi istanza di grazia alla Regia. Ben sapevo però che in questi casi eccezionali vana era ogni speranza di grazia.

Ci furono, dunque i disertori. Come in tutti gli eserciti. In Francia, per la verità, furono più numerosi. La pena nei loro confronti e nei confronti delle loro famiglie è scontata. Ma una riabilitazione sarebbe a mio parere un’offesa a tutti i soldati che fecero fino in fondo il loro dovere, anche morendo sul campo di battaglia.

È anche accaduto, non più tardi di un anno fa, che qualcuno abbia protestato per la decisione di attribuire a papa Giovanni – parlo di San Giovanni XXIII – il ruolo di protettore dell’Esercito Italiano. Come è possibile – si è detto – che il Papa buono protegga un esercito? Lo si è detto negando il ruolo dei cappellani militari in quella guerra, nella quale operarono per altro anche ministri del culto con le stellette ebrei e protestanti. Si è voluto dimenticare che Giovanni XXIII era stato un cappellano militare e su quella sua opera ha scritto pagine splendide.

Mi fermo qui, ma non prima di avervi letto un’altra testimonianza.

È il 4 novembre 1918. Siamo al Lago d’Ampola, in Trentino.

Alle due fulminea voce. Da soldato a soldato, da baracca a baracca, da vetta a vetta: <Armistizio! Vittoria!>. Poi ancora: <Sul Piave le armate austriache sono in rotta>. I soldati si guardano storditi. Non credono.

Poi s’abbracciano, saltano, gridano, pregano, tacciono, s’appartano, ridono. È una commozione ineffabile che ci prende, ci scuote, c’inebria ed illumina.

Queste parole sono state scritte da un pacato medico militare, non da un esaltato ardito volontario, Filippo Petroselli. Fratello dell’avvocato Tommaso.

 

 

Viterbo, immagini, letture e riflessioni nel Centenario della Vittoria

Il 4 novembre 1918 il comandante supremo del Regio Esercito Armando Diaz, dopo l’armistizio firmato a Villa Giusti, diffondeva il Bollettino della Vittoria, che sanciva la sconfitta dell’Impero austroungarico.
A cento anni esatti di distanza, nella Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, con il patrocinio e il sostegno del Comune di Viterbo, la Fondazione, con la collaborazione della la Fondazione Caffeina Culturq ha organizzano domenica 4 novembre 2018, con nel Teatro Caffeina di Viterbo un evento per ricordare quel momento fondamentale nella storia d’Italia, che ha posto fine a quattro anni di guerra, costati sacrifici e lutti che hanno consentito il completamento del Risorgimento.
Il Sindaco di Viterbo Giovanni Arena ha portato il saluto della Città. Il Florian Metateatro Centro di Produzione Teatrale di Pescara ha presentato la performance Dal Notturno a Doberdò, con testi di Gabriele D’Annunzio. Hanno collaborato Leonardo Rossi per la scelta dei brani musicali e Chiara Isabella Sanvitale per la regia e l’iconografia.
Gli attori Giulia Basel, Umberto Marchesani ed Edoardo De Piccoli hanno dato voce alle memorie di Mercedes Astuto, Carlo Emilio Gadda, Francesco Giuliani, Antonio Graziani, Rudyard Kipling, Paolo Monelli, Gioacchino Nicoletti, Filippo Petroselli, Tommaso Petroselli, Vincenzo Rabito, Angelo Giuseppe Roncalli, Carlo Salsa, Bruno Scarpocchi, Renato Serra, Ardengo Soffici, Arturo Stanghellini, Giani Stuparich, Giuseppe Ungaretti.
Luciano Osbat, direttore del Centro Diocesano di Documentazione di Viterbo, ha parlato sul tema La Grande Guerra nella memoria viterbese. Hanno coordinato Gianni Scipione Rossi, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, e Rosa Rossi, responsabile della Libreria Caffeina.