Archivio delle Destre. Piccola storia di una copertina mai nata

Bozza cianografica
della copertina mai nata

di Gianni Scipione Rossi

//Quando si tenta, sempre con scarso successo, di riordinare le carte di una vita, talvolta si riannodano i fili di piccole storie. Come la genesi di una copertina mai nata [foto a sinistra], che forse merita di essere raccontata, pur se mi costringe a una sorta di – parziale – autobiografia. Anche un modesto, marginale documento può testimoniare il clima di un’epoca. Dunque la racconto, questa storia, mentre affido questo e altri documenti all’Archivio delle Destre che tanti anni fa decidemmo di creare con Giuseppe Parlato e Giovanni Tassani, come costola tematica dell’Archivio della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

Destre, al plurale, non destra. Perché – al di là della nota considerazione di Giuseppe Prezzolini sulla pluralità delle destre – la carenza di documenti su monarchici, missini, cattolici e liberali conservatori, qualunquisti, gruppi del neofascismo extraparlamentare, rendeva difficile studiare in modo scientifico queste aree della politica italiana.

Era un problema che mi aveva riguardato direttamente. Più di quarant’anni fa, tra il 1977 e il 1978, mentre facevo il giornalista precario e studiavo Scienze politiche alla Sapienza di Roma, mi si pose inevitabilmente il problema della tesi di laurea. Chiesi ad Augusto Del Noce di poter lavorare sui pensatori controrivoluzionari dell’Ottocento. Non fu garbato. Altra passione, la storia economica. Avrei voluto studiare la chiusura delle terre nel Mezzogiorno e le sue conseguenze. Non andò: il docente cambiò facoltà. Solo in terza battuta mi indirizzai alla Storia dei partiti e dei movimenti politici. Carlo Vallauri – solido socialista – generosamente assentì, pur avendogli spiegato che lavoravo e dunque avevo qualche difficoltà a impegnarmi a tempo pieno. D’altra parte per i giornalisti della mia generazione la laurea non era – purtroppo – richiesta né ambita. Il giornalismo era nato come professione da “irregolari”, spesso autodidatti, ed era ancora così.

Cominciai a frequentare i seminari di Sandro Setta e Lamberto Mercuri. Con loro – grazie a loro – scoprii la stampa clandestina antifascista e il museo di via Tasso. Con Sandro Setta, che aveva lavorato sull’Uomo Qualunque, individuammo come argomento la storia del Msi nel periodo – 1968/1973 – che aveva visto il partito uscire dal declino e riemergere tra i protagonisti della politica italiana. Il tema era storiograficamente quasi vergine, per così dire. E per il neofascismo in generale si poteva solo contare su pochi vecchi testi militanti, pro e contro, più contro che pro. Il nuovo fascismo da Salò ad Almirante. Storia del Msi, di Petra Rosenbaum, era uscito per Feltrinelli nel 1975, prefato da un Carlo Rossella che mai avresti immaginato, vent’anni dopo, alla guida del Tg1 “berlusconiano”.

La tesi fu discussa il 17 novembre del 1979 nell’impegnativa aula magna della Sapienza. Un “acuto” membro della commissione di cui ho rimosso il nomemi chiese quale a mio parere fosse stato il ruolo di Pino Rauti nella strage di Piazza Fontana. Perplessorisposi che non facevo il poliziotto, né il magistrato. Non mi venne da precisare che non ero neppure un cartomante. Questo per dire del clima… La tesi poi rimase lì, rilegata. Il mio tesserino da pubblicista, nuovo di zecca, mi sembrava decisamente più importante. Dopo varie e precarie esperienze di lavoro – ricordo sempre, con piacere e sconforto, quella nella redazione di OP di Mino Pecorelli – piuttosto casualmente approdai nel 1980 al “Secolo d’Italia” e in quell’ambiente conobbi Gaetano Rasi, che a metà degli anni Ottanta mi chiese di curare il bimestrale dell’Istituto di Studi Corporativi, la costola culturale dell’antica sinistra missina, che Rasi aveva fondato all’inizio degli anni Settanta.

Gaetano, uomo di partito, ma contestualmente di azienda e di studi, cercava con fatica di promuovere e diffondere una nuova e moderna cultura per la destra politica. Non per caso nel 1981 era riuscito a creare la Fondazione Ugo Spirito intorno all’archivio e alla biblioteca del filosofo. Ci univa il gusto dell’analisi e della ricerca. Ci divideva il suo legame sentimentale con i pochi mesi che aveva vissuto da ragazzino come “fiamma bianca”, nel tramonto della Rsi. Mio padre Stefano, poco più anziano di lui, aveva cercato di unirsi all’esercito del Re. Ci divideva, altresì, il mio dubbio sull’utilità di insistere con il termine corporativismo, che nella scienza economica internazionale aveva assunto un significato opposto a quello che intendeva lui. 

In questo contesto Rasi ebbe l’idea di creare con l’Istituto una collana di libri, che volle chiamare “Contributi per la storia del Movimento Sociale Italiano”. Una storia nella quale era immerso, ma che intendeva proporre in modo oggettivo, non “di parte”. Si trattava di uscire dalle secche della memorialistica e, nel contempo, di fornire strumenti diversi dalla facile demonizzazione corrente. L’esigenza era sentita. Così fu pubblicata, nel 1986, la tesi sulle origini del Msi di Giuliana de Medici. Io mi offrii di curare gli scritti politici del geo-economista Ernesto Massi, protagonista della sinistra missina del dopoguerra. Uscirono nel 1990, con il titolo Nazione sociale [foto a destra] e una fascetta problematica: MSI: destra o sinistra? La tipica problematicità di quel micro-mondo.

Già nel 1988 si ragionò sulla mia tesi. Perché Piero Ignazi più volte era venuto all’Istituto a cercare documentazione e testimonianze per Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, primo lavoro scientifico scritto sine ira et studio sul Msi, che uscì per il Mulino nel maggio del 1989. Un libro onesto, ben fatto, serio, pur se gravato da qualche errore interpretativo sulle radici culturali dell’area rautiana. Un lavoro frutto di un arduo lavoro di ricerca, che ben conoscevo. In dieci anni poco o niente era cambiato. Rasi decise che l’Istituto non poteva limitarsi a guardare e mi spinse a riprendere in mano la tesi, nonostante io fossi oberato di lavoro. La tesi era troppo tesi, in verità. Nuove ricerche, dunque. Riscrittura completa. Dubbi se allargare o meno il periodo a tutti gli anni Settanta. Gli impegni professionali non me lo permisero. Ne uscì, nel gennaio del 1992, Alternativa e doppiopetto. Il Movimento Sociale Italiano dalla contestazione alla destra nazionale (1968-1973) [foto a sinistra]. Il primo libro di taglio scientifico – almeno nelle intenzioni – che, in qualche modo, poteva essere considerato scritto dall’interno, anche se la mia giovanile, reale, militanza politica, prima nel liberale Movimento Studentesco Democratico guidato da Alfredo Bastianelli e Teodoro Katte Klitsche de la Grange [nella foto sotto “Contropelo”, il primo giornale ciclostilato del MSD, a.I, n. 1, s.d., ma autunno 1968], e poi nell’organizzazione giovanile missina – di anticomunisti militanti non è che se ne trovassero in giro… – risaliva alla fine degli anni Sessanta e alla prima metà degli anni Settanta, con episodiche puntate successive. Fare politica non era nelle mie corde.

Non ho niente da rinnegare delle mie esperienze, ma le regole interne dell’attività politica – identiche in tutti i partiti strutturati di allora – non mi hanno appassionato, se non come osservatore attento. Ero uno spirito difficilmente inquadrabile, eterodosso per vocazione. La destra missina è stata in quegli anni la mia casa, il fascismo-neofascismo no. Nel 1973 – avevo 19 anni – scrissi <Non siamo fascisti. [] Non siamo [] restauratori>, sul mensile artigianalmente stampato ad offset “Giovani Contro”, che compilavamo con gli amici Antonio Laudati, studente come me, e Vincenzo Tortoriello, battagliero operaio metalmeccanico della Maina. (a. II, n. 5, marzo 1973 [foto a sinistra]). Voleva essere la voce del Fronte della Gioventù di Asti, dove ho trascorso – da pendolare con Roma – qualche mese della mia vita. Forse lo scrissi – con pseudonimo, per non inguaiare mio padre – soprattutto per me stesso. Ma, in quella provincia che al Msi garantiva percentuali elettorali risibili, nessuno se la prese.

Per la precisione che merita la microstoria, debbo ammettere che la testata di quel giornaletto non la inventai, ma semplicemente la copiai da quello – di tre anni prima, 1970 – della mia sezione missina romana. Questo sì, poveramente ciclostilato. [foto a sinistra]


Qualche anno dopo, nel
giugno del 1978, Gianfranco Fini pubblicò sul periodico del Fronte – “Dissenso” – una mia lettera che voleva essere di provocazione e stimolo, che intitolò “Camerata si. Camerata no. Un problema da approfondire”.

Scrivevo dunque: < [] l’uso del termine “camerata” sottintende l’accettazione di una qualificazione politica come fascista? Se no, qual è il mio caso []. Se invece la risposta è positiva; se cioè ci si chiama camerati perché si assume di essere fascisti, nel senso pieno della parola, questo può forse riguardare qualche vecchio non troppo intelligente, ma scusabile, ed un numero ancor meno rilevante di giovani, anch’essi poco intelligenti e neppure scusabili. Ma, se così fosse, non sarei il solo a chiamarmi fuori da un’accolita siffatta> (Dissenso”, a. II, n. 8, 5 giugno 1978 [foto a destra]). Ingenuo? Non credo. Anche se la mia provocazione non ottenne allora grandi risultati. La scissione di Democrazia Nazionale stava determinando una involuzione del “polo escluso”. Ma questa lettera – stiamo parlando di micro-cronaca, s’intende – non mi impedì due anni dopo di essere assunto e di lavorare per otto piacevoli anni al quotidiano del Msi-Dn, che ho lasciato nel settembre del 1988 per scelta professionale, quando ero a capo del servizio politico. Può sembrare un paradosso. Invece era normale. La destra missina era un litigioso, magmatico mondo plurale. Nel quale “gentiliani” ed “evoliani”, corporativisti e socializzatori, monarchici e repubblicani, europeisti e nazionalisti, occidentalisti e terzaforzisti, liberali e organicisti, cattolici e anticlericali, filo-israeliani e filo-arabi, conservatori e rivoluzionari, a stento si davano la mano.

La premessa è stata lunga – perdoni il lettore – ma necessaria. La notizia – come si comprende dalla foto di apertura – è questa: Alternativa e doppiopetto – citato forse migliaia di volte – non era il titolo originario del mio libro. Il titolo, scelto da me e approvato da Gaetano Rasi, era L’enigma Almirante. Il MSI tra alternativa e doppiopetto (1968-1973). Lo testimonia appunto la cianografica ingiallita della prova di copertina che ho ritrovato nel mio disordinato archivio privato. A tanti anni di distanza credo ancora che L’enigma Almirante fosse il titolo migliore. Perché in effetti Giorgio Almirante – verso il quale nutrivo grande rispetto, apprezzandone il tentativo di far uscire il partito dall’inutile recinto del neofascismo identitario, nostalgico e catacombale – è stato politicamente un enigma. E in fondo di questo enigma – la scelta non scelta – rimase prigioniero. Perché quel titolo fu cambiato in extremis? Avvenne, sia chiaro, con il mio consenso.

Accadde che Gaetano Rasi [foto a sinistra] fece leggere le bozze a due dirigenti del Msi con i quali abitualmente dialogava, e dei quali, peraltro, avevo raccolto le testimonianze. EntrambiRaffaele Valensise, gran signore meridionale, e Franco Servello, ruvido ma amabile milanese d’adozione – apprezzarono il mio testo riconoscendo anche – ne sono diretto testimone che avrebbe potuto innescare – come fu – un’utile riflessione politica. Sembrò invece loro che enigma potesse risultare un termine irrispettoso per la memoria di un leader politico con il quale per decenni avevano collaborato in vario modo, tra alti e bassi, e la cui figura – a pochi anni dalla scomparsa – era circondata dall’affetto profondo di militanti ed elettori. L’editore Rasi avrebbe lasciato tutto com’era. L’uomo di partito Rasi capì il ragionamento degli amici. Io, pragmaticamente, assecondai l’editore: si cambiava il titolo, mica il testo. Far leggere le bozze non era stata peraltro la ricerca di un imprimatur, del quale non c’era alcuna necessità. Era stato un semplice, condiviso, atto di cortesia, giustificato proprio dalle testimonianze che io avevo deciso di raccogliere nella riscrittura ex novo della tesi di laurea. Che si basava solo su documenti e pubblicistica. Pochi documenti, in realtà. Ricordo bene il giorno del 1978 in cui chiesi un appuntamento a Cesare Pozzo, mitico responsabile stampa e propaganda nella vecchia sede centrale missina di Palazzo del Drago. Gli chiesi se cortesemente si potesse consultare l’archivio del partito. Mi rispose: “Non c’è, è andato perduto”. Mi dovetti accontentare di alcuni faldoni di atti congressuali. Quell’archivio è ancora disperso. Distrutto? Bruciato? Perché? Su questo si è favoleggiato molto. Inutilmente. Non è il solo archivio di partito non disponibile, in verità. Comunque, per quando riguarda quella e altre destre, sia pure frammentari e non esaustivi, i documenti disponibili oggi sono decisamente più numerosi. Compresa la marginale cianografica oggetto di questa piccola storia.

Per la presentazione romana – il 20 febbraio del 1992 – la sala del Residence di Ripetta era stracolma e attenta agli interventi di Carlo Vallauri, Paolo Liguori, Ernesto Massi, Marcello Veneziani, oltre al mio, naturalmente. Si respirava un clima, se non di tensione, certo di attesa curiosa. Molti mi strinsero la mano. Qualcuno uscì perplesso. Altri mi tolsero il saluto. È ricapitato molte volte, negli anni. Ma tant’è. Ci si abitua.

Ps. Per evitare equivoci chiarisco che i miei articoli e i miei libri, fino al 1991, sono tutti sempre firmati con il mio nome familiare e d’affezione, cioè Gianni. Fu proprio nel gennaio del 1992 che, a causa di una insuperabile omonimia professionale, dovetti aggiungere il mio vero nome anagrafico, cioè Scipione.