La sinistra italiana e il ’68

Danilo Breschi, nel suo saggio «Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del ’68» avverte che i tentativi di dare forma organizzativa ai sogni di una società diversa arrivano a noi da Lenin. L’autore, dovendo situare storicamente quali siano le origini del Sessantotto, le colloca nel «decennio di preparazione» che parte dal 1956. Alle fibrillazioni, le ambizioni del 1956-1968 è dedicato questo libro.

Le generazioni comuniste si incontrarono con quelle sessantottine figlie di eresie, dissensi, scissioni, dissidenze neo e post-marxiste sulla base di un’idea di militanza che faceva scemare ogni differenza su ciò che doveva seguire all’arroventarsi del conflitto sociale e alla risposta autoritaria dello stato. In questo saggio Danilo Breschi mostra come a vincere sia stato «il partito armato», la preparazione all’insurrezione, contro il permanere della radice di classe e della coercizione anche nello stato liberal-democratico.

Fra il movimento degli studenti per la riforma universitaria di oggi e quello del 1968 non sembra esserci continuità. E’ la prima volta che accade, ma ciò consente di guardare meglio alle caratteristiche del secondo, che fino a questanno ha costituito, se non un modello da replicare, un punto di riferimento costante.

L’eredità appare essere fortemente ambigua. Di quella esperienza si considerano legittimi continuatori sia dirigenti e reclute del terrorismo sia quanti si propongono di aumentare gli spazi di libertà combattendo vecchi e e nuove forme di autoritarismo. Diventa, pertanto,obbligatoria un’analogia. Così come per essere considerati democratici non basta essere stati antifascisti (erano, infatti, tali anche i comunisti che ne fecero parte), l‘aver condiviso le aspirazioni antigerarchiche, la domanda di partecipazione, la stessa socializzazione del ecc. del movimento del 1968 non è un titolo sufficiente per essere riconosciuti come combattenti per un’idea di libertà e di giustizia non inquinata da forme equivoche di neo-dispotismo. Queste distinzioni sono facili per chi si muove in campo liberal-democratico o social-democratico. Meno, molto meno lo sono per chi vive nella cultura politica della sinistra non riformista. In essa il superamento del liberalismo è spesso sfociato nella costruzione di società dove in nome di una maggiore giustizia sociale si è sacrificato il godimento di maggiori garanzie individuali, accrescendo il ruolo dello stato rispetto a quello della società civile e in generale dei cittadini.

Danilo Breschi, nel suo recente saggio Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del ’68 (Mauro Pagliai Editore, Firenze 2008) avverte che i tentativi di dare forma organizzativa ai sogni di una società diversa arrivano a noi da Lenin. Dovendo situare storicamente le origini del Sessantotto le colloca, sulla base della proposta di Sidney Tarrow (cfr. Democrazia e disordine, Laterza, Roma-Bari 1990) e con una terminologia risorgimentale, nel «decennio di preparazione» che parte dal 1956. Alle fibrillazioni, i fermenti, le ambizioni del 1956-1968 (Quaderni Rossi di Panzieri, Classe operaia di Tronti e Negri, Potere operaio di Sofri ecc.) è dedicato in buona sostanza questo libro. L’anno 1956 indica il processo di critica e di ripensamento che venne avviato all’interno della sinistra italiana da gruppi di riviste neo-marxiste, di «autonomia» socialista (mi riferisco al Psi) e di gruppi di intervento nelle fabbriche nei confronti dei partiti e dei sindacati tradizionali. E’ il segno della prima incrinatura della guerra fredda (la denuncia e dispotismo staliniano al XX congresso del Pcus, il ricorso dell’Unione sovietica alla forza delle armi per sedare le rivolte in Europa orientale, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna blindano il canale di Suez). Di qui comincia anche la liberazione di forze che avrebbero fatto della dimensione extraparlamentare progressivamente della «contestazione globale del sistema» una sorta di nuovo principio di ordine.

Breschi ricostruisce questo passaggio ma è soprattutto attento a coglierne i tratti salienti. L’impressione che alla fine se ne ricava è che la sinistra non sia molto cambiata da quella che era in origine. Si è attenuato il filo-sovietismo e la demonizzazione delle social-democrazie degli anni cinquanta, ma resta ferma l’avversione al sistema politico e sociale del capitalismo, alla politica interna e soprattutto alla politica estera degli Stati Uniti, il culto del terzomondismo. Non subisce deroghe, invece, il vecchio costume comunista intriso di intolleranza e pregiudizi, col suo pluralismo di facciata, la vocazione presupposta a dirigere, impartire lezioni, esibire superiorità nei confronti degli altri partiti e movimenti. Tutto e tutti sono oggetto di una superiorità morale e di un’onestà nel governo e negli affari che in maniera auto-referenziale surroga l’accertamento della competenza.

I comunisti, ancorchè sconfitti e dispersi, vivono il loro tramonto senza mitezza, ma con rancore, come indefessi missionari di una religione, apostoli di una civiltà a cui appartiene il regno dei cieli o la felicità in terra. Si sentono diversi perchè non si riconoscono pari agli altri. Una rivolta micidiale contro il dio dei cristiani, il principio dell’eguaglianza e della carità. Come sistema delle regole, delle procedure la democrazia non esiste per questi estremisti più di quanto non potesse rilevare Norberto Bobbio nella polemica con Togliatti e Berlinguer. Il loro problema è stato un altro, probabilmente quello di far emergere e foggiare un’organizzazione politica di lotta per il proletariato di fabbrica, quella che Alberto Asor Rosa ha chiamato «una generazione nuova di dirigenti e di militanti rivoluzionari della classe operaia».

In realtà quando questo è avvenuto, con la segreteria di Achille Occhetto, fino a Valter Veltroni, il comunismo e il Pci hanno sofferto le stesse pene del trapasso e avuto lo stesso destino di morte. Direi il peggiore che si potesse immaginare, cioè la mancanza di qualunque identità. Si può dire lo stesso di quella che, insieme al marxismo, fu la seconda colonna portante del Sessantotto, il cattolicesimo del dissenso? Breschi accenna all’inizio del suo saggio all’importanza che ebbero i circa mille «gruppi spontanei» cattolici vivi alla fine del 1967, la Lettera ad una professoressa di don Lorenzo Milani, il Marcuse cattolico, l’università di Trento ecc.. Il suo ruolo minoritario (per la scarsa esperienza dei cattolici, salvo i militanti della Cisl, nelle manifestazioni di massa) si spiega con la funzione subalterna che il cattolicesimo politico del «dissenso» e in generale la sinistra democristiana ebbe nei confronti della componente comunista. Lo si vede ancora oggi in seno al Partito democratico, dove gli ex-democristiani ed ex-popolari contano poco o nulla.

Ciò malgrado, bisognerebbe spiegare come mai a prevalere nel Sessantotto sia stato il comunismo, che come impianto palingenetico, costruzione dell’uomo nuovo, evocazione utopica non poteva eguagliar la storia secolare del mondo religioso dei credenti, cioè i cattolici.

La sinistra comunista, al pari dei suoi eredi come i terroristi, muove da un presupposto che si rivelato storicamente fallimentare, l’idea della riforma-bilità dell’esperienza e soprattutto che fosse possibile non ripeterla, rendersi autonoma da esso, dando vita ad un comunismo diverso da quello che storicamente ebbe applicazione in Urss, nei paesi dell’Europa orienta le, in Cina e a Cuba.

Viene impostato una sorta di percorso a ritroso. Da Stalin a Lenin e a Trotskj, da Togliatti a Gramsci. Dal parlamento ai consigli di fabbrica, dalla politica delle mediazioni alla guerriglia armata e alla rivolta di piazza e di massa. Dalle riforme alla contestazione globale appunto. L’impostazione anti-autoritaria, l’egualitarismo e l’uso dei mezzi estremi della contestazione (occupazione dei luoghi di lavoro, parole d’ordine aggressive ecc.). Da allora forme di lotta e anche alcuni contenuti rivendicativi saranno assunti dai sindacati come il valore aggiunto di una minaccia sociale.

Resteranno un lascito, una sorta di metastasi permanente del Sessantotto che si trasformerà in una bomba ad orologeria innescata nel cuore del sistema economico ed amministrativo del paese. Il sistema produttivo e la gestione degli apparati pubblici tarderanno a riprendere a funzionare, almeno fin quando gli imprenditori (cioè il padronato industriale) e i dirigenti statali non metabolizzeranno il fatto che questo volto duro, aspro nella visibilità era il costume, il nuovo modo di essere, delle avanguardie in fabbrica. Il Pci riuscì dove i compagni francesi invece fallirono, tenendo rigorosamente separato il vecchio consenso dai nuovi movimenti.

I loro compagni italiani erano stati in grado di controllare la radicalizzazione politica di forze sociali che erano cresciute al di fuori di sé, nelle università e nelle fabbriche, tra studenti e operai. Una nuova retorica unitaria avrebbe accompagnato la rivisitazione della Resistenza, dell’antifascismo, dei fronti popolari riabilitati in nome del fascismo-che-torna (tale venne definito il centrismo). Non avranno seguito né storia gli annunci di un ciclo di lotte preinsurrezionali, il passaggio dalla ribellione alla rivoluzione proletaria che l’analisi poco marxista della società, da parte dell’estremismo teorico e successivamente del movimento studentesco, avevano dato per imminente. Avendo sbagliato i soggetti e il calendario dell’esplosione rivoluzionaria alle avanguardie e ai settori più fanatici non si aprirà altra strada che quella della rassegnazione personale o del terrorismo. Una doppia sconfitta, comunque.

Un vincitore del Sessantotto ci fu, forse furono addirittura tre. Innanzi tutto la liberazione delle donne da antichi servaggi, l’imporsi di una sessualità non più segnata da servitù di passaggio. In secondo luogo vinse il Pci, la sua tattica di occupare molecolarmente pezzi del potere, suddividerlo. I tempi lunghi della rivoluzione sono diventati un’altra cosa, un interminabile dosaggio spartitorio in cui si è consumato anche l’ideologia della sua diversità nel sistema politico. I risultati elettorali misurano differenze nella gestione e non assegnano mandati di carattere soteriologico.

Ma il Pci non fu solo gestione ampliata dell’esistente. Aveva una riserva di miti, speranze, ambizioni, armi, uomini di diverse generazioni che alla palingenesi non avevano inteso rinunciare. Le generazioni comuniste si incontrarono con quelle sessantottine figlie di eresie, dissensi, scissioni, dissidenze neo e post-marxiste sulla base di un’idea di militanza e di impegno che faceva scemare ogni differenza su ciò che doveva seguire all’arroventarsi del conflitto sociale e alla risposta autoritaria dello stato. A vincere fu questo terzo elemento, il ricorso alla violenza e la preparazione all’insurrezione, contro il permanere della radice di classe e della coercizione anche nello stato liberal-democratico.

Breschi condivide, non a torto mi pare, le analisi di G. C. e di G. De Luna. In realtà, la loro concezione della Resistenza come momento di mobilitazione collettiva mi pare una classica ideologia inventata dall’anti-fascismo per dare una parvenza di coralità al ruolo minoritario che ebbe nel paese e più specificamente nella crisi del regime fascista dopo il 25 luglio 1943. E’, però, vero che le giornate del luglio del 1948 (attentato a Togliatti) e 1960 (contro il governo guidato da Fernando Tambroni, un esponente della sinistra democristiana, caro ai socialisti di Nenni e al presidente della repubblica Giovanni Gronchi) coincisero col riemergere di una tradizione insurrezionalistica. Anche se non venne modificato l’impianto teorico dell’opzione legalitaria di Pci e Psi, l’esperienza storica concreta testimoniava che si era potuto e combattere e piegare il nazifascismo con la presa del potere attraverso la lotta armata e l’insurrezione. Questo modello della violenza verrà ripreso dai movimenti e dai gruppi dopo il 1968 (cfr. pp. 248-250). Quando è cessato l’enorme onere finanziario assuntosi da Mosca e dalle imprese pubbliche e private attraverso il «pizzo politico» riscosso, e si è sfarinato il grimaldello della disciplina tenuta insieme dal centralismo democratico, i comunisti sono apparsi uguali agli altri. Lasciata in pasto ai giudici, come una superstizione è sopravvissuto il mito della loro onestà e competenza, e la loro capacità di interpretare la società civile, peraltro sempre più simile alla società politica. Questa «fine» della politica a misura della qualità delle riforme per i sessantottini era impensabile. Non ebbero alcun interesse per modificare il sistema politico (che quarantenni dopo avrebbe privilegiato la leadership, il carisma, un certo populismo, il gusto per il cambiamento possibile),e neanche per correttivi democratici (come per esempio le elezioni primarie, gli stessi referendum, i mutamenti istituzionali dello stato). Su tutto ciò la loro agenda è stata terribilmente vuota. Anche di spontaneità, come Breschi dimostra, nel Sessantotto ce n’era stata ben poca, come di riformismo. Nel’Italia di oggi a rendere meno ideologica la contestazione studentesca è la necessità di fare i conti con un governo che non si limita a predicare i cambiamenti.

SALVATORE SECHI
In «Ragionpolitica.it», lunedì 29 dicembre 2008