Il nuovo libro di Giorgio Israel.

Sei anni dopo il Duemila, parlare del comunismo è imbarazzante. Il capitolo è chiuso. Disseppellirne il cadavere sembra un grottesco accanirsi su una storia oramai spezzata. Chi ne parla bene è un patetico rottame divorato dalla nostalgia. Chi ne parla male è un sopravvissuto dell’anticomunismo senza comunismo. La «questione comunista» non c’è più, travolta dai detriti del muro di Berlino e trasferita nel magazzino del rigattiere assieme alla bandiera rossa un tempo issata sul Cremlino: roba del «secolo scorso».

Così vuole la vulgata. In un libro appena uscito, Liberarsi dei demoni (Marietti), Giorgio Israel però ne contesta l’assunto e spiega che la «mitologia palingenetica» del comunismo, alimentata da un inesauribile «odio di sé» che indica l’Occidente come la fonte di ogni male, non ne ha intaccato il nucleo centrale, liberandolo addirittura dall’ingombrante peso della storia. Il comunismo come pura idealità, fascinosa tentazione anti-borghese, generosa nobiltà delle intenzioni: ecco la nuova forza della seduzione comunista, finalmente emancipata dalla necessità di un confronto con la storia reale, una volta per tutte svincolata dal dovere di fare i conti con il Gulag. Argomenti, quelli di Israel, che meriterebbero una meditazione approfondita. Ma che, sul piano della psicologia collettiva, sembrano infrangersi contro il muro del senso comune. La sensibilità diffusa, i riferimenti culturali, il lessico, persino la crudeltà anagrafica dell’ineluttabile ricambio generazionale sembrano condannare le dispute sul comunismo alla polvere degli oggetti desueti. Il comunismo, trascinando nel suo triste destino chi sul comunismo si ostina ad accapigliarsi, annoia. È antichità inerte e senza vita. Parlarne non è più sexy. Se non fosse che uno scampolo tardivo di infatuazione maoista, quella che Filippo Ceccarelli su Repubblica ha indicato come una nuova via «percentualistica» al comunismo, sembra aver improvvisamente ravvivato la riflessione sulla storia comunista. Merito di Rossana Rossanda, che sul manifesto ha voluto celebrare la rivoluzione culturale cinese dicendosi convinta della necessità di salvare un buon trenta per cento della figura di Mao, lasciando che il restante settanta venga consegnato, si sarebbe detto un tempo, alla critica roditrice dei topi. Il giochino statistico della Rossanda potrebbe finalmente restituire alle discussioni sul comunismo un brivido di frizzante attualità. Di nuovo ci si potrebbe appassionare alla rivoluzione culturale chiedendosi per esempio se i laogai, raffinata variante cinese dei campi di concentramento, debbano essere inclusi nel trenta buono oppure nel settanta cattivo. E i milioni di morti vittime del fanatismo apocalittico delle guardie rosse, in quale casella troveranno posto, nel settanta brutto o nel trenta bello? Gli intellettuali sospettati di cedimento borghese per via della padronanza di una lingua straniera e perciò malmenati e spediti nei campi di rieducazione, sono percentualmente il meglio o il peggio di quella spietata epurazione di massa che fu la rivoluzione culturale in Cina?

Le torture inflitte ai dissidenti probabilmente Rossanda le condannerà al bieco settanta per cento. E la proibizione demenziale della musica «occidentale», Bach in primis, si condanna o si rivendica, inserendola di soppiatto nel luminoso trenta per cento? Se la storia del comunismo, pervicacemente difesa dai suoi ultimi seguaci, diventasse alla fine un quiz, chissà che la discussione su quel fenomeno un tempo terrificante e imponente non possa conoscere una nuova stagione di modernità. Insieme a nuovi, affascinanti interrogativi: qual è il sette virgola tre per cento da salvare nell’opera del compagno Stalin.

PIERLUIGI BATTISTA
in «Corriere della Sera», 11 settembre 2006