Tra archivi e pubblicistica una ricerca sul filoarabismo neofascista

Mercoledì 20 novembre 2019 alle ore 17.30, nella Sala della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice (piazza delle Muse 25, Roma) si è tenuta la presentazione del volume di Elisa D’Annibale, Veronica De Sanctis e Beatrice Donati, Il filoarabismo nero. Note su neofascismo italiano e mondo arabo (1945-1973) (Edizioni Nuova Cultura, Roma 2019). Con le autrici ne hanno parlato Nicola Rao, consigliere di amministrazione della Fondazione e vicedirettore della Testata Giornalistica Regionale della Rai e Gianni Scipione Rossi, vicepresidente della Fondazione e direttore del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo. Ha introdotto Il consigliere di amministrazione Nicola Benedizione. Numerosi gli intervenuti nel dibattito, tra i quali il prof. Paolo Simomcelli.

Il libro
Rilevata la scarsità di ricerche dedicate al nodo critico dei rapporti tra neofascismo italiano e mondo arabo nel secondo dopoguerra, i saggi qui raccolti offrono un primo sguardo d’insieme sia sulle posizioni espresse dal Movimento sociale italiano che su alcune delle istanze avanzate nella galassia del dissidentismo missino e delle riviste d’area. Prendendo le mosse dall’evoluzione della politica estera del Msi – dalla fondazione del partito fino ai primi anni Settanta –, ponendone in rilievo il graduale slittamento su posizioni filoisraeliane, si è in seguito proposta una disamina delle tesi filoarabe sostenute dalla corrente spiritualista, animata dalle teorie di Julius Evola. Inizialmente interna al Msi, se ne è ricostruita l’evoluzione fino alla nascita del Centro Studi Ordine Nuovo e alla conseguente fuoriuscita dal Partito. Volgendo lo sguardo alla pubblicistica neofascista, l’indagine approda infine sulle colonne delle riviste «L’Orologio» (1963-1973), espressione della sinistra nazionale, e «Corrispondenza repubblicana» (1966-1969), organo della Federazione nazionale degli ex combattenti della Rsi, analizzandone in maniera minuta gli articoli inerenti al mondo arabo.

Le autrici
Elisa D’Annibale ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Europa presso l’Università di Roma “Sapienza”. È autrice di saggi sulla diffusione del pensiero di Ernst Jünger in Italia e sulla politica culturale del fascismo e del nazionalsocialismo in relazione ad alcuni istituti di cultura.
Veronica De Sanctis ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Europa presso l’Università di Roma “Sapienza”. Si occupa di Grande Guerra e degli aspetti propagandistici, militari e culturali ad essa legati, sui quali ha pubblicato diversi articoli e contributi.
Beatrice Donati ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell’Europa presso l’Università di Roma “Sapienza”. I suoi interessi vertono principalmente sulla Rivoluzione francese e sul Triennio repubblicano italiano (1796-1799).

 

La Destra, gli anni di piombo e l’illusione di Democrazia Nazionale

Giuseppe Parlato, La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale, Luni, Milano 2017

// Nella ormai vasta e articolata offerta storiografica sulla destra politica post-fascista mancava una ricostruzione della vicenda di Democrazia Nazionale, il partito nato nel dicembre del 1976 per scissione dal Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale ed esauritosi nel 1979, dopo l’infausta partecipazione delle sue liste alle elezioni politiche di quell’anno, nelle quali raccolse appena lo 0,6% dei suffragi.
Non che siano mancati riferimenti nei volumi dedicati al Msi. Ma in quei contesti Democrazia Nazionale è stata trattata alla stregua di una semplice e velleitaria parentesi, appena più rilevante delle numerose altre micro-scissioni che hanno segnato il partito di estrema destra sin dalla fondazione.
Per dimensioni, caratteristiche, ambizioni Democrazia Nazionale fu in realtà molto di più e – per quanto breve – non può essere sminuita a episodio, ma è invece opportuno analizzarla come parte integrante della storia del postfascismo italiano. Giuseppe Parlato lo fa – si può dire finalmente – sulla base di un’accurata ricerca delle fonti, memorialistiche e archivistiche, ormai disponibili, collocando la vicenda nel fluire della storia del postfascismo e nel contesto degli avvenimenti politici italiani della seconda metà degli anni Settanta, essenzialmente caratterizzati dall’esperienza della “solidarietà nazionale”, che vide la collaborazione tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. I due partiti che insieme raccoglievano circa l’80% dei voti espressi, mentre si manifestava il clima degli “anni di piombo”, segnati dal terrorismo e dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro.
Un periodo particolarmente critico della storia repubblicana, che matura dopo la crisi della formula politica del centro sinistra, esauritasi con le elezioni politiche del 1972 dopo anni di fibrillazioni e incertezze. Anni in cui emerse la concreta opportunità per il Msi di tornare a svolgere – come negli anni Cinquanta – un ruolo politico non puramente testimoniale. La lunga leadership di Arturo Michelini era stata caratterizzata dal fallimento del progetto della “grande destra”, accettato dal Pdium di Alfredo Covelli ma rifiutato dal Pli di Giovanni Malagodi. Le elezioni politiche del 1968 per il Msi furono insoddisfacenti e ne certificarono l’isolamento. Con la morte prematura del segretario, l’anno successivo, la guida del partito fu affidata – e Parlato nel ricostruisce le ragioni – a Giorgio Almirante, che riuscì, grazie alla crisi del centro sinistra e alla battaglia parlamentare contro l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, a imprimere una svolta movimentista, sia pure con elementi di ambiguità culturale e programmatica che costituirono il brodo di coltura degli avvenimenti successivi.
Nelle vicende interne al Msi, Almirante rappresentava le suggestioni identitarie del neofascismo, opposte alla prospettiva di una storicizzazione del regime messa in campo – pur con accenti diversi – da esponenti del partito quali Ernesto De Marzio, Nino Tripodi, Pino Romualdi. Con il ritorno alla segreteria, Almirante tentò di gestire le diverse componenti proponendo da un lato il Msi come “alternativa al sistema” partitocratico; dall’altro come fulcro di una alleanza dei moderati anticomunisti, sulla scia della “grande destra” micheliniana. Da qui la nascita della Destra Nazionale, aperta a personalita’ estranee al neofascismo, che tuttavia nelle elezioni politiche del 1972 – a causa della capacità della Democrazia Cristiana di recuperare il “voto utile” in senso anticomunista – non riuscì a conquistare un consenso tale da renderla politicamente indispensabile.
In fondo da quella vittoria “dimezzata” – in un’Italia spazzata dal terrorismo – nasce la crisi interna del partito che porterà alla scissione del 1976, paradossalmente grazie all’intuizione di Almirante di ampliare il progetto della Destra Nazionale accelerandolo con la più ambiziosa Costituente di Destra, che servì agli scissionisti come strumento regolamentare per la costituzione di gruppi parlamentari autonomi.
Una scissione di vertice, certamente, della quale Parlato ricostruisce efficacemente genesi, passaggi, particolari e motivazioni. L’unica scissione partitica della storia repubblicana caratterizzata dall’abbandono della maggioranza degli eletti in Parlamento, che consentì di attribuire alla nuova formazione una quota rilevante del finanziamento pubblico sul quale, all’epoca, si reggeva l’attività dei partiti. La reazione di Almirante – che rimase alla guida del partito con l’appoggio di Romualdi e Rauti – fu incentrata sul concetto etico di “tradimento”, mentre nella vulgata cominciò immediatamente a circolare il sospetto di una manovra ordita e finanziata dalla Democrazia Cristiana. Parlato dimostra come tale sospetto fosse infondato sul piano fattuale e politico, mentre sottolinea l’abilità di Almirante – a costo di un’inversione rispetto alle prospettive di moderatismo da lui stesso alimentate – nel suscitare lo sdegno e la relativa mobilitazione della base del partito, che solo in misura esigua aderisce alla scissione in sede locale. Lo stesso Andreotti, nel suo diario, alla data della scissione scrive: «Qualcuno si congratula con me: non so se ci sia da congratularsi, ma sta di fatto che io l’ho appreso soltanto dopo e nessuno mi aveva chiesto un parere in proposito». D’altra parte – come rileva Parlato – per la Dc «era preferibile avere un Msi nostalgico ed estremista piuttosto che una destra moderna e compatibile con il sistema». Non c’erano, in sostanza, le condizioni politiche perché l’avventura di Democrazia Nazionale – formazione peraltro molto litigiosa al suo interno e priva di una indiscussa leadership – potesse evolvere in un progetto stabile e aggregante sul versante politico della destra. Per certi versi, gli esponenti di Democrazia Nazionale – additati di “tradimento” – furono a loro volta “traditi” dalla Dc. O, meglio, tradite furono le loro velleitarie aspettative, frutto di una errata lettura politica del momento storico e del tenore dei loro rapporti con esponenti democristiani.
«Il vero problema degli scissionisti – rileva Parlato – fu proprio la mancanza di veri rapporti istituzionali con il potere: se a livello di singoli gli esponenti del mondo moderato avevano contatti e amicizie in campo democristiano (Tedeschi con Piccoli, Delfino con Andreotti, De Marzio con Moro, Nencioni con Fanfani, solo per fare qualche esempio), nessuno di tali rapporti si trasformò in rapporto politico; e ciò basterebbe per smentire la strategia Dc su Democrazia Nazionale: in altre parole, se la Dc avesse voluto la scissione, l’avrebbe fatta meglio. Al dunque, solo Fanfani si spese a favore di Democrazia Nazionale in occasione della costituzione del gruppo al Senato e ciò non dipese dai contatti e dai rapporti con gli scissionisti ma da riflessioni autonome del Presidente del Senato in ordine alla evoluzione della politica Dc». Gli scissionisti, dunque, furono utilizzati per ragioni di tattica interna al partito democristiano, non nel quadro di una prospettiva politica neo moderata di lungo respiro.
Il fallimento di Democrazia Nazionale era sostanzialmente già scritto in nuce. Fu un’operazione inattuale e ingenua che – al di là del destino personale dei singoli scissionisti, in larga parte consapevoli dell’errore commesso – determinò un rallentamento di quel processo di costruzione – come lo definisce Parlato – di un «collettore di un elettorato moderato e anticomunista che spesso si trovava in difficoltà a votare per la Dc». Per ragioni ben comprensibili, avendo riguardo alla natura culturalmente plurale di quello che è stato definito “arcipelago democristiano”, destinato col tempo ad esaurire la sua stessa esperienza.

Gianni Scipione Rossi

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX

Note e riferimenti bibliografici nella versione cartacea.